La caccia di Zero. Джек Марс
che la stava tenendo stretta, quello più in carne, borbottò qualcosa.
Rais si interruppe e lo guardò irritato.
I due ebbero un rapido scambio, di cui la ragazza non capì una sola parola. Tanto non avrebbe avuto importanza; non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sorella minore, che strizzava gli occhi piangendo. Le lacrime le colavano lungo le guance e sulla mano che le teneva la bocca chiusa.
L’assassino ringhiò per la frustrazione. Alla fine lasciò la presa sulla mano di Sara. L’uomo in carne fece lo stesso con Maya. Allo stesso tempo lo straniero in giacca di pelle spintonò in avanti la ragazzina più giovane. Maya prese la sorella tra le braccia e la strinse a sé.
Poi Rais avanzò, parlando a bassa voce. “Questa volta siete state fortunate. I gentiluomini qui presenti mi hanno suggerito di non danneggiare la merce prima di rivenderla.”
Maya tremò da capo a piedi, ma non osò muoversi.
“Oltretutto,” aggiunse lui, “il posto dove vi porteremo sarà mille volte peggio di qualsiasi cosa potrei farvi io. Ora saliremo tutti su quella nave. Ricordati che gli sei utile solo da viva.”
L’uomo in carne fece loro strada sulla rampa, trascinandosi dietro Sara e poi Maya. Le due ragazze salirono incerte sulla nave. Ormai non aveva più senso lottare. La mano della sorella maggiore pulsava di dolore per il colpo che aveva sferrato a Rais. C’erano tre uomini e solo due di loro, e l’assassino era molto veloce. Aveva persino trovato Sara la buio. Non sarebbero mai riuscite a scappargli da sole.
Maya guardò l’acqua nera oltre il lato della nave. Per un istante pensò di buttarsi; morire congelata sarebbe stato preferibile al destino che l’attendeva. Ma non poteva farlo. Non poteva lasciare Sara. Non poteva perdere l’ultima briciola di speranza che le rimaneva.
Si diressero a prua della nave, dove l’uomo in giacca di pelle prese un mazzo di chiavi e aprì la serratura di una cassa metallica di un arancione rugginoso.
Aprì la porta e Maya sussultò per l’orrore.
Dentro il container, con gli occhi socchiusi per la fioca luce gialla, c’erano numerose ragazze, almeno quattro o cinque da quello che vedeva.
Poi la spintonarono da dietro per costringerla a entrare. Fecero lo stesso con Sara, che cadde in ginocchio per terra nella cassa. Non appena la porta si richiuse alle loro spalle, Maya si affrettò a chinarsi e a prenderla tra le braccia.
Sentirono scattare la serratura e sprofondano nell’oscurità.
CAPITOLO NOVE
Il sole tramontò in fretta nel cielo nuvoloso mentre il quadricottero sfrecciava verso nord per consegnare il suo carico—un determinato agente della CIA e padre—allo Starlight Motel nel New Jersey.
Sarebbe arrivato in cinque minuti. Un messaggio sullo schermo lo avvisò: Prepararsi al lancio. Lanciò uno sguardo fuori dall’abitacolo e vide, molto più in basso, che stava volando sopra un’ampia area industriale piena di magazzini squadrati e di stabilimenti di produzione, vuoti e bui, illuminata solo da lampioni arancioni.
Aprì il borsone nero che si era appoggiato in grembo. Dentro trovò due fondine con due pistole. Si sfilò la giacca dentro il minuscolo abitacolo per mettersi l’imbracatura da spalla che reggeva la Glock 22 di dotazione standard. Niente di simile alla Glock 19 altamente tecnologica dal grilletto biometrico di Bixby. Si rimise la giacca e si sollevò la gamba dei jeans per legarsi la fondina da caviglia che conteneva la sua arma di riserva preferita, la Ruger LC9. Era una pistola compatta dalla canna corta, una calibro nove millimetri, con un caricatore da nove colpi che spuntava di appena tre centimetri sotto il calcio.
Afferrò la barra attaccata alla corda da arrampicata, pronto a sbarcare dal drone non appena avesse raggiunto l’altezza e la velocità di sicurezza. Stava per sfilarsi le cuffie dalle orecchie quando sentì la voce di Watson.
“Zero.”
“Ci sono quasi. Mancano solo due minuti…”
“Abbiamo appena ricevuto un’altra foto, Kent,” lo interruppe l’altro agente. “L’ha mandata al cellulare di tua figlia.”
Il panico gli torse lo stomaco. “Una foto delle ragazze?”
“Sono sedute su un letto,” confermò lui. “Sembra sia di un motel.”
“Puoi rintracciare il numero che l’ha inviata?” chiese speranzoso Reid.
“Mi dispiace, l’ha già abbandonato.”
La sua speranza svanì. Rais era intelligente; fino a quel momento aveva mandato solo foto di posti dove era stato, non dove era ancora. Se l’agente Zero aveva qualche speranza di raggiungerlo, l’assassino voleva che fosse solo ai suoi termini. Per tutto il viaggio in quadricottero, Reid era stato nervosamente ottimista sulla pista del motel, ansioso al pensiero che avesse battuto Rais al suo stesso gioco.
Ma se aveva mandato una foto… c’erano buone possibilità che se ne fossero già andati di lì.
No. Non puoi pensarla così. Vuole che lo trovi. Ha scelto un motel nel bel mezzo del nulla proprio per questo motivo. Ti sta provocando. Sono lì. Devono esserlo.
“Stavano bene? Sembravano… sono ferite?”
“Sembravano a posto,” gli garantì Watson. “Turbate. Spaventate. Ma a posto.”
Il messaggio sullo schermo cambiò, lampeggiando in rosso: Sbarcare. Sbarcare.
A prescindere dalla foto o dai suoi dubbi, era arrivato. Doveva vedere con i suoi occhi. “Devo andare.”
“Fai in fretta,” gli disse l’altro agente. “Uno dei miei sta chiamando la CIA con una falsa pista e una descrizione che combacia con quella di Rais e delle tue figlie.”
“Grazie, John.” Si sfilò le cuffie, si accertò di avere una presa salda sulla barra della corda e si lanciò fuori dal quadricottero.
La discesa controllata di quindici metri fino a terra fu più veloce di quanto avesse previsto e gli tolse il fiato. Il brivido familiare, la scarica di adrenalina, gli attraversò le vene mentre il vento gli fischiava nelle orecchie. Piegò leggermente le ginocchia al momento dell’atterraggio e arrivò sull’asfalto piegato su di sé.
Non appena ebbe lasciato la barra, la corda ritornò dentro il quadricottero e il drone sparì nella notte con un ronzio, tornando da qualunque posto fosse venuto.
Reid si guardò attorno. Era nel parcheggio di un magazzino di fronte a uno squallido motel, illuminato fiocamente da qualche lampadina gialla. Un cartello dipinto a mano rivolto verso la strada diceva che era nel posto giusto.
Controllò a destra e a sinistra e poi attraversò di corsa la strada vuota. Era silenzioso lì, in maniera inquietante. C’erano tre auto nel parcheggio, sparpagliate davanti alle stanze rivolte verso di lui. Una era chiaramente il SUV bianco che era stato rubato nella rivendita di macchine usate nel Maryland.
Era di fronte alla stanza con il numero nove in bronzo appeso alla porta.
Le luci all’interno erano spente; non sembrava abitata in quel momento. Nonostante ciò, lasciò cadere la sua borsa appena fuori dalla porta e rimase attentamente in ascolto per tre secondi.
Non udì nulla, quindi estrasse la Glock dalla fondina alla spalla e sfondò la porta con un calcio.
Lo stipite esplose con facilità al contatto con il suo piede e Reid entrò, puntando la pistola nell’oscurità. Non si muoveva niente tra le ombre. Non si sentiva un suono, nessuno gridò per la sorpresa né si gettò a prendere un’arma.
Tastò il muro con la mano sinistra alla ricerca di un interruttore, e poi lo accese. Nella Stanza 9 c’era un tappeto arancione e una carta da parati gialla arricciata agli angoli. Era stata pulita di recente, per quanto qualcosa all’interno dello Starlight Motel potesse definirsi ‘pulito’. Il