Italo Svevo: Opere Complete - Romanzi, Racconti e Frammenti. Italo Svevo
manifesta quando, in luogo di Macario, doveva ingannare Miceni. La cosa era facilissima, Miceni essendo ben lontano dal sospettare qualche cosa, tanto lontano che Alfonso se ne indispettiva e più volte provava il desiderio di farlo suo confidente e renderlo invidioso piuttosto che sprezzante, perché, era sempre più evidente, Miceni sembrava supporre che Alfonso amasse Annetta e non ne fosse corrisposto. Non sapeva del rifiuto dato da Annetta a Fumigi e anzi Fumigi doveva avergli detto tutt’altro che la verità per spiegargli perché non avesse avuto luogo la promissione di che gli aveva parlato. Era strano con quanta facilità Miceni, solitamente tanto malizioso, tenesse per vere le favole che gli erano state raccontate. Diceva ad Alfonso che Fumigi era in procinto di sposare un’altra ragazza più ricca e più bella di Annetta e che perciò aveva abbandonato quest’ultima.
Era reso più facile ad Alfonso tacere di sé e delle sue fortune con Annetta, all’accorgersi che per vendicarsi di Miceni, farlo stizzire, gli bastava deridere Fumigi e le sue pretensioni.
— Da un momento all’altro questo signore lasciò l’idea di chiedere la mano di Annetta? Strano! A me invece venne detto ch’egli abbandonò tale idea dopo averla già messa ad esecuzione!
Miceni allora diveniva rosso come un gambero cotto e rispondeva come avrebbe risposto a un’offesa personale, violentemente. Diceva che Annetta era una vanerella la quale avrebbe voluto veder morire qualcuno d’amore per lei, ma che fino ad allora non le era riuscito.
Alfonso non poté portare ira contro Fumigi che per breve tempo. Una mattina, andando all’ufficio, vide la piccola personcina trotterellare nella stessa sua direzione. Passò oltre fingendo di non vederlo, ma Fumigi gli corse dietro chiamandolo ad alta voce. Si volse e rimase stupito al trovarsi dinanzi una figura ben differente da quella a cui s’era atteso. Non era la magrezza né la pallidezza di volto che lo sorprendeva; era l’inquietudine dell’occhio, era uno strano movimento della bocca che masticava o meglio ruminava, ma più che altro era il vestito trascurato, indecente, una giacca troppo lunga che non sembrava fatta sul suo dosso, calzoni bianchi leggeri ad onta della temperatura ch’era di poco al di sopra dello zero, e sul ginocchio destro una larga macchia d’inchiostro che Alfonso per cortesia non volle fissare.
— Le annunzio che mi sposo con... con — e parve che non rammentasse il nome della sua amata. Alfonso si congratulò esitante. Non capiva; quell’uomo più che di persona felice aveva l’aspetto di pazzo.
Ragionava passabilmente però e soltanto la lingua non gli serviva come avrebbe dovuto. S’era messo a discorrere furiosamente e Alfonso provava difficoltà a seguirlo, perché la pronunzia di Fumigi era fosca e poco precisa. Quando costui si accorse di non venir compreso, adirandosi si mise a gridare per divenire più esatto.
— Capisco, capisco! — disse Alfonso spaventato.
Fumigi gli raccontava dei suoi studî di meccanica. Aveva inventato un locomobile con il quale si risparmiava il settantacinque per cento di combustibile. Non era ancora sicuro del fatto suo perché gli mancava il mezzo per poter misurare con precisione il consumo di gas. Era una macchina a pressione d’aria.
— Sono pur disgraziato di mancare... di quel mezzo... per misurare... In teoria sono sicuro...
Alfonso, che di meccanica nulla sapeva, tanto per dimostrare che prendeva interesse a quanto gli veniva raccontato gli chiese:
— Perché non si serve di un gazometro?
L’altro lo guardò stupefatto:
— Proverò, — masticò. — Lei va ancora dalla signorina Annetta?
Pronunziava questo nome con tutta indifferenza.
— Di rado.
— Io non più perché mi manca il tempo. Tanto... tanto da fare.
All’orologio della piazza sonarono le nove. Fumigi contò i nove tocchi
— Già le nove? Devo andarmene.
Pose la destra mollemente in quella di Alfonso e ritiratala subito la lasciò cadere al fianco. La sua bocca non aveva dato alcun saluto subito di nuovo occupata a masticar e il suo pensiero era già tutto rivolto al luogo ove doveva recarsi: si voltò e trotterellò verso il mare traversando diagonalmente il Corso.
Quel giorno Miceni e Alfonso non litigarono. Profondamente commosso, Alfonso chiese a Miceni di quale malattia soffrisse Fumigi.
— Malattia? — chiese Miceni già col tono dell’ira, — non è malattia, è una sovreccitazione nervosa che si buscò dal troppo lavoro. Inventa macchine e continua a lavorare tutto il giorno in ufficio.
— Ne ho piacere! — disse Alfonso con sincerità. — Il medico ha assicurato che guarirà?
Aveva il desiderio di essere certo che la malattia di Fumigi non era grave.
— Ma sì! — rispose Miceni bruscamente.
Racconsolato, Alfonso sperò di veder ben presto di nuovo Fumigi e guarito. Lo avrebbe trattato affettuosamente e nel modo che gli sarebbe stato possibile avrebbe cercato di lenire i dolori ch’egli aveva aiutato a procurare a quel povero ometto disgraziato.
La sera s’imbatté in Prarchi. Correva infuriato per il Corso; lo fermò — scusi, non ho tempo! — gli disse Prarchi cercando di passar oltre.
— Solo una domanda. Come sta Fumigi?
Immediatamente Prarchi dimenticò di non avere tempo.
— Come sa ella ch’è ammalato?
— Ho parlato questa mane con lui e mi parve che avesse un contegno strano di molto.
Prarchi esitò per un istante, poi:
— È vero — confermò — anch’io me ne sono accorto. Però nulla ancora posso dire. Finora lo si lasciò col solo suo medico di casa ed oggi soltanto vengo chiamato da Maller. Udii parlare di eccitazione nervosa ed è possibile. Un mese fa era eccitato e null’altro. S’era rimesso tutt’ad un tratto ai suoi studî e, quando lo consigliai di riposare, mi rispose con un’energia di cui non lo avrei creduto capace: Morire ma arrivare ad un risultato; son vecchio e ho fretta. Oggi non so. Chissà? Forse m’inganno e non si tratta che di eccitazione come la chiamano.
Di nuovo Prarchi esitò. Poi risoluto, commosso e con voce profonda disse:
— A lei posso dirlo. Vorrei ingannarmi, ma non lo credo. Si tratta di paralisi progressiva. La prego di non parlare di ciò con nessuno per ora.
Gli strinse la mano che Alfonso gli aveva porto prima di udire il terribile verdetto e se ne andò correndo.
R
XIII
La posizione finanziaria di casa Lanucci non voleva migliorare. Gli affari del vecchio avevano sempre il medesimo risultato e Gustavo era rimasto una seconda volta senza impiego. Aumentando la miseria, cresceva il malumore, e Alfonso, che aveva finito coll’essere più frequentemente dai Maller che coi Lanucci, soffriva di più della loro compagnia perché non abituato alla ruvidezza del bisogno.
Il giorno che Gustavo a faccia tosta venne ad avvisare che aveva abbandonato l’impiego perché il suo principale lo aveva insultato, ebbe luogo una scena brusca. Dapprima il vecchio aveva ammirato la fierezza del figliuolo e gli aveva anzi detto ch’era un vero Lanucci. Gli andò il sangue alla testa soltanto in seguito all’osservazione fatta tristamente dalla signora, che da questo fatto le finanze della famiglia venivano peggiorate. All’idea dell’aumento di miseria, il vecchio perdette la logica e la fierezza dei sentimenti. Gridò e imprecò sempre più irritato dalle risposte petulanti di Gustavo il quale cercava di salvaguardare alla meglio la propria dignità. Nella sua santa ira, il vecchio disse ch’era finalmente stanco di sopportare lui le spese di tutta la famiglia. La signora lo pregò più volte di non gridare tanto. Più colta, ella comprendeva quanto dovesse spiacere ad Alfonso quella scena e se ne vergognava, ma non trovò migliore mezzo per farlo tacere che di gridare più di lui. Di lì a poco, il sangue