Italo Svevo: Opere Complete - Romanzi, Racconti e Frammenti. Italo Svevo
di aumentare le spese. Per timore di vedersi gettato in nuovi imbarazzi finanziarî ebbe frasi incisive; non voleva udire altri ragionamenti diffidando della propria fermezza. Poi gli parve che il signore ed anche la signora Lanucci lo salutassero più freddamente del solito, quantunque la signora non omettesse di augurargli la buona fortuna. Lucia lo salutò con un inchino e, augurandogli il buon divertimento, gli porse con gesto studiato la mano affilata.
Alfonso rimasto solo, per lasciar trascorrere ancora qualche poco di tempo prima di recarsi dai Maller che, forse, ancora non avevano terminato di cenare, rilesse la lettera della madre.
Nella lettera la vecchia Nitti parlava molto delle speranze ch’ella riponeva in Alfonso; diceva di aver scritto alla signorina Francesca Barrini governante di casa dei Maller per raccomandarlo. Poi, per tutta la lettera aveva sparso saluti da singoli amici del villaggio di cui la vecchia signora con tutta pazienza indicava nome e cognome con l’aggiunta — ti saluta tanto, — infine due linee di baci ed abbracci e la firma: — tua madre Carolina.
Di sotto però, preceduta da un P.S. c’era la frase: — Da due giorni non sto molto bene; oggi però sto meglio.
IV
Alfonso credeva di avere dello spirito e ne aveva di fatto nei soliloqui. Non gli era stato mai concesso di farne con persone ch’egli stimasse ne valessero la fatica, e, recandosi dai Maller, pensava che un suo sogno stava per realizzarsi. Aveva meditato molto sul modo di contenersi in società e s’era preparato alcune massime sicure sufficienti a tener luogo a qualunque altra lunga pratica. Bisognava parlare poco, concisamente e, se possibile, bene; bisognava lasciar parlare spesso gli altri, mai interrompere, infine essere disinvolto e senza che ne trapelasse sforzo. Voleva dimostrare che si può essere nato e vissuto in un villaggio e per naturale buon senso non aver bisogno di pratica per contenersi da cittadino e di spirito.
La casa del signor Maller era situata in via dei Forni, una via della città nuova, composta di case mancanti d’eleganza all’esterno, grigie, di cinque piani con a pianterreno dei magazzini spaziosi. Non era molto illuminata e, di sera, cessato il movimento dei carri asportanti merci, poco frequentata.
Era piovuto nella giornata e Alfonso, per non infangarsi, camminava rasentando le mura delle case. Trovata la casa, egli rimase alquanto sorpreso nell’atrio. Era illuminato che pareva giorno. Largo, diviso in due parti separate da una scalinata, aveva l’aspetto di un anfiteatro in miniatura. Era completamente deserto e, salendo la scalinata, non udendo che il suono e l’eco dei propri passi, Alfonso credette di essere l’eroe di qualche racconto di fate.
Prima persona che gli si presentò sulle scale fu un vecchio rubizzo dalla barba bianca ben conservata, che scendeva canticchiando. — Chi cerca? — gli chiese, e il tono di quella voce bastò per far capire ad Alfonso che ad onta del suo vestito nero in quella casa si riconosceva in lui alla prima occhiata l’uomo povero.
— Abita qui il signor Maller? — chiese timidamente.
Il volto del vecchio divenne anche più serio; non era possibile che una persona pulita non sapesse dove abitava il signor Maller; cominciava già ad annusare l’accattone.
Si trovavano all’ultima scala per arrivare al primo piano; dal pianerottolo Santo sporse il suo capo ispido come un cardo:
— È un impiegato — gridò; — venga, venga, signor Nitti.
— Oh! Santo! — esclamò Alfonso lieto d’imbattersi in volto conosciuto, e salì le scale in premura.
Il portiere si lisciò la barba:
— Ah! così? — e senza salutare continuò a scendere, dopo pochi passi rimettendosi a canticchiare.
Santo, appoggiato negligentemente alla balaustrata, attese Alfonso senza mutar positura e quando lo ebbe accanto gli disse:
— La introdurrò io — sempre ancora immobile; poi, riflettendo: — È stato invitato dal signor Maller? — domanda che fece credere ad Alfonso che ci fosse una stanza apposita destinata a ricevere gl’impiegati invitati dal signor Maller.
Improvvisamente Santo si mise a camminare celermente verso una porta a destra.
— Scusi un istante, — gridò, e, lasciandolo sulla soglia, entrò nel corridoio con passo frettoloso, aperse la prima porta e la sbatacchiò dietro di sé. Rimasto solo, Alfonso si trovò in una semioscurità nel corridoio tappezzato a colori smorti con due porte per parte ed una in fondo, piccole, colorate in nero lucido. Udiva alla destra lo scoppio della voce di Santo a cui rispondevano la voce e le risate di una donna; le parole non arrivava a comprendere, risonavano confuse come in un vuoto.
Santo uscì ridendo sgangheratamente; aveva la bocca piena. Attraverso all’uscio socchiuso Alfonso scorse una cucina ricca di vasellame di rame lucente, un focolare e accanto una donna grassa e bionda, illuminata dalla luce rossastra del fornello; con un cucchiaio in mano minacciava Santo. Santo continuò per un pezzo a ridere sotto i baffi. Si diresse verso la porta di fondo.
Giunsero in una stanza quadrata con mobili piccolissimi fatti per esseri che di certo mai erano esistiti. Piccola e morbida, pareva un nido. Era tappezzata con una stoffa azzurra che ad Alfonso parve raso e i tappeti erano tanto alti, soffici che si provava il desiderio di sdraiarvisi.
— È la stanzuccia di ricevimento della signorina Annetta, — disse Santo; — non si entra però mica da questa parte. Qui è l’ingresso per la servitù. L’ho condotta da questa parte per poter farle vedere subito qualche stanza; è la parte più bella della casa.
Lo guardò con un sorriso da protettore, attendendosi di venir ringraziato.
Sul tavolinetto c’erano delle chincaglierie chinesi. Sembrava che il gusto della signorina Annetta fosse orientale. Sulle tappezzerie, al chiarore della candela accesa da Santo, Alfonso vide dipinti su un fondo azzurro due piccoli chinesi; l’uno seduto su una corda fissata a due travi ma molle e pendente come se i chinesi non pesassero, l’altro in atto di arrampicarsi su per un’erta invisibile.
— Qui dorme la signorina — disse Santo giunto nell’altra stanza, e tenne in alto la candela per diffondere la luce.
Inquieto Alfonso chiese:
— È permesso di venire in questa stanza così, senz’altro?
— No! — rispose Santo con superbia — a tutti è proibito meno che a me.
Il suo volto era sfavillante dall’orgoglio per quelle cose belle. Faceva ammirare la tappezzeria vellutata; si diresse anche verso il letto e stava per aprire i panni leggeri, rosei, che ne formavano il padiglione, ma Alfonso glielo impedì.
— Oh! — fece Santo con un gesto che doveva significare disprezzo ai voleri dei padroni ma che stonava con le sue parole. — Giovanna mi disse che sono ancora tutti di là, in tinello.
Pure, scosso dalla paura di Alfonso, si diresse verso la porta di uscita. Ad onta della sua agitazione, quel letto commosse Alfonso e fino all’uscita vi tenne rivolto lo sguardo. Così chiuso era veramente virginale. Accanto ad esso v’era un inginocchiatoio in legno oscuro.
Si sorprese di trovare nell’altra stanza la biblioteca. Grandi armadi contenenti libri coprivano quasi per intero le pareti. La suppellettile ne era semplice: un grande tavolo coperto da un panno verde nel mezzo e d’intorno delle sedie comode e due ottomane.
Improvvisamente entrò il signor Maller.
Non avevano udito il rumore del suo passo. Chiese bruscamente a Santo che cosa facesse in quel luogo.
— Ho voluto far vedere al signor Nitti la biblioteca, — rispose Santo balbettando.
Aveva perduto la sua disinvoltura da padrone; stava rigido in posizione di attenti, tenendo la candela molto bassa. Palesemente mentendo aggiunse:
— Siamo entrati per di là — e accennò alla porta di mezzo.
Alfonso si avanzò:
—