Italo Svevo: Opere Complete - Romanzi, Racconti e Frammenti. Italo Svevo

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il signor Maller con gesto signorilmente cortese gli porse la mano, — benvenuto! — Parlava affabilmente ma con poca vivacità. — Mi dispiace di non poter rimanere con lei come avrei desiderato; ho da vedere qui qualche cosa e poi debbo andarmene. Troverà la mia figliuola e la signorina che ella già conosce di là in tinello; a rivederla; — e già a mezzo volto verso il tavolo gli strinse la mano.

      Santo rigido alla porta di mezzo chiese:

      — Ho da lasciare qui il lume?

      — No, accendi il gas!

      S’era sdraiato sull’ottomana più vicina e aveva preso in mano un giornale.

      Alfonso si trovò sul corridoio per il quale era entrato: aiutato da Santo si levò il soprabito. Mentre lo introduceva nel tinello costui trovò il tempo di esclamare:

      — Che peccato di aver incontrato il signor Maller; valeva la pena di vedere la sua stanza da letto. Sarà per un’altra volta però, — e gli ammiccò in segno di protezione.

      Il tinello era illuminato da una lumiera a gas di tre fiamme. Non v’era nessuno. Santo entrò con passo cauto, si guardò d’intorno comicamente sorpreso, corse al tavolo, alzò un lembo del tappeto che lo copriva, guardò al di sotto:

      — Non c’è nessuno.

      Vedendo che Alfonso, seccato da quel modo di riceverlo non sapeva sorridere al suo scherzo, si avviò per uscire:

      — Le signorine devono essere salite al secondo piano, andrò ad avvertirle. Si accomodi intanto.

      Alfonso rimase in piedi sapendo quanto valesse l’invito di Santo. Era intimidito dalle ricchezze vedute e non sognava più il contegno da persona spiritosa. Desiderava di esserne fuori, ed era poco piacevole il suo sentimento. In quella casa bisognava contenersi modestamente, da subalterno. Un occhio più esercitato avrebbe scorso in quell’addobbo qualche cosa di eccessivo, ma era la prima volta che Alfonso vedeva di tali ricchezze e si lasciava abbagliare.

      Il tinello più che le stanze di Annetta portava le traccia d’essere abitato. Il pianino era aperto e sul leggìo v’era della musica; delle carte di musica giacevano anche su una sedia accanto all’istrumento. I mobili erano varii, alcune sedie di paglia, altre foderate. Si sentiva perfino un lieve odore di cibo.

      Un grande numero di fotografie era disposto in forma di ventaglio aperto sulla parete al di sopra del pianino; i quadri, quattro o cinque, erano appesi troppo in alto, e ciò per lasciar posto agli alti schienali dei mobili.

      Non s’intendeva affatto di pittura Alfonso, ma aveva letto qualche volume di critica artistica e sapeva cosa significasse, nell’idea, scuola moderna. Rimase colpito dinanzi a un quadro che non rappresentava altro che una lunga via appena segnata attraverso un terreno sassoso. Non v’era alcuna figura; sassi, sassi e sassi. Il colore era freddo e la via sembrava perdersi all’orizzonte. Una mancanza di vita sconsolante.

      Perduto nella contemplazione, più meravigliato che ammirando, non sentì ch’era stata aperta la porta; poi, per imbarazzo, esitò alquanto a voltarsi quando s’accorse che qualcuno era entrato.

      — Signor Nitti! — disse una voce dolce e dolcemente.

      Rosso come se fosse stato fino allora con la testa ove aveva i piedi, Alfonso si voltò. Era la Signorina , come la chiamavano, l’amica di sua madre, non la signorina Maller; quella doveva essere più giovine. La signorina Francesca avrebbe dovuto avere circa trent’anni, quantunque Alfonso non avrebbe saputo dire perché gli sembrasse di dovergliene dare tanti. Aveva una carnagione pallida, e se non da persona sana, da persona giovane, occhi chiari, azzurri; il colore biondo oro dei suoi capelli dava una grande dolcezza a quella fisonomia non regolare. Di statura era piccola, troppo se la figurina non fosse stata perfettamente proporzionata e non avesse tolto così il desiderio di modificarla in qualunque modo si fosse.

      Gli porse la mano bianca paffutella:

      — Il figliuolo della signora Carolina? Dunque mio buon amico? Nevvero?

      Alfonso s’inchinò.

      — E al villaggio tutti bene?

      Chiese di dieci persone, suoi buoni amici, dei quali da anni non sentiva parlare; li nominava indicandone alcuno col nomignolo, tutti caratterizzando con la citazione di qualche loro qualità speciale. Poi chiese dei luoghi; li nominava con parole di rimpianto citando le belle ore che ci aveva passate. Chiese di una collina posta ad un’estremità del villaggio e stette a udire ansiosamente la risposta come se avesse temuto di dover apprendere che nel frattempo fosse crollata.

      Ad Alfonso la signorina Francesca parve subito adorabile. Nessuno gli aveva fino ad allora ravvivato in quel modo il ricordo della patria; i ricordi lontani e poco vivaci della signora Lanucci non ravvivavano niente. Egli viveva solo, sognando dolorosamente il suo paese, e, a forza di pensarci, trasformandolo. La signorina parlandone rettificava il suo ricordo e gli sembrava gliene desse una novella impressione. Era commossa anch’essa da quei ricordi.

      Come Alfonso poscia apprese, era stato quello l’anno più felice della sua vita. Era stata ammalata e, in seguito a prescrizione medica, la povera famigliuola cui apparteneva con grandi sacrifizî l’aveva mandata in campagna. Lì aveva goduto un anno di assoluta libertà.

      Gli prese di mano il cappello e lo fece sedere.

      — La signorina Annetta verrà subito. Ella attende da molto tempo?

      — Da mezz’ora! — disse Alfonso con sincerità.

      — Chi l’ha introdotta? — chiese la signorina corrugando le sopracciglia.

      — Il signor Santo.

      Dava a Santo del signore in omaggio alla persona cui parlava.

      Entrò la signorina Annetta e Alfonso si levò in piedi confuso; l’aveva molto agitato la lunga preparazione.

      Era una bella ragazza, quantunque, come egli disse a Miceni, il suo volto largo e roseo non gli piacesse. Di statura alta, con un vestito chiaro che dava maggior rilievo alle sue forme pronunciate, non poteva piacere ad un sentimentale. In tanta perfezione di forme Alfonso trovava che l’occhio non era nero abbastanza e che i capelli non erano ricci. Non sapeva dire il perché, ma avrebbe voluto che lo fossero.

      Francesca presentò Alfonso. Annetta s’inchinò leggermente mentre stava per sedersi. Era palese che non aveva neppure l’intenzione di dirigergli la parola. Si mise a leggere un giornale che aveva portato seco. Ad Alfonso sembrò ch’ella non leggesse e che i suoi occhi fissassero sempre il medesimo punto sul foglio. Si lusingò ancora ch’ella fosse imbarazzata quanto lui e che volesse cavarsela facendo mostra di leggere. Ella però aveva il volto tranquillamente sorridente.

      Meno disinvolta, Francesca volle riprendere il discorso interrotto.

      — E abitano sempre ancora quella casa lontana tanto dal villaggio?

      Alfonso ebbe appena il tempo di affermarlo. Lasciandosi andare a un risolino di compiacenza che fino ad allora con fatica aveva rattenuto, Annetta disse a Francesca:

      — Ero da papà. Si parte doman l’altro; ha acconsentito e promesso.

      Francesca parve sorpresa aggradevolmente. La voce di Annetta meravigliò Alfonso; se l’era aspettata meno dolce in un organismo tanto forte.

      Le due donne parlavano a bassa voce. Alfonso comprese che Annetta doveva aver strappato con qualche astuzia un consenso al signor Maller. Ignorato del tutto, egli si trovò imbarazzato. Guardò un quadro alla sua destra: il ritratto di un vecchio dai tratti grossolani, gli occhi piccini, la testa calva.

      Parve che Francesca indovinasse il suo malessere e volesse riparare alla scortesia di Annetta ch’era stata la prima a parlare a mezza voce. Gli raccontò che avevano progettato un viaggio per Parigi e che, dopo aver resistito per lungo tempo, il signor Maller finalmente acconsentiva di accompagnarle e di lasciare per otto o dieci giorni le sue occupazioni, in piena stagione di lavoro. Si volse di nuovo ad Annetta.

      —


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