I promessi sposi. Alessandro Manzoni
fare con un fanciullo, al quale non si spera di far intendere tutta la ragione d’una cosa, e che s’indurrà poi, con le preghiere e con l’autorità, a ciò che si vuol da lui.
— Va bene, — disse Agnese; — va bene; ma... non avete pensato a tutto.
— Cosa ci manca? — rispose Renzo.
— E Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Tonio e suo fratello, li lascerà entrare; ma voi! voi due! pensate! avrà ordine di tenervi lontani, più che un ragazzo da un pero che ha le frutte mature.
— Come faremo? — disse Renzo, un po’ imbrogliato.
— Ecco: ci ho pensato io. Verrò io con voi; e ho un segreto per attirarla, e per incantarla di maniera che non s’accorga di voi altri, e possiate entrare. La chiamerò io, e le toccherò una corda... vedrete.
— Benedetta voi! — esclamò Renzo: — l’ho sempre detto che siete nostro aiuto in tutto.
— Ma tutto questo non serve a nulla, — disse Agnese, — se non si persuade costei, che si ostina a dire che è peccato.
Renzo mise in campo anche lui la sua eloquenza; ma Lucia non si lasciava smovere.
— Io non so che rispondere a queste vostre ragioni, — diceva: — ma vedo che, per far questa cosa, come dite voi, bisogna andar avanti a furia di sotterfugi, di bugie, di finzioni. Ah Renzo! non abbiam cominciato così. Io voglio esser vostra moglie, — e non c’era verso che potesse proferir quella parola, e spiegar quell’intenzione, senza fare il viso rosso: — io voglio esser vostra moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio, all’altare. Lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo d’aiutarci, meglio che non possiamo far noi, con tutte codeste furberie? E perché far misteri al padre Cristoforo?
La disputa durava tuttavia, e non pareva vicina a finire, quando un calpestìo affrettato di sandali, e un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento, annunziarono il padre Cristoforo. Si chetaron tutti; e Agnese ebbe appena tempo di susurrare all’orecchio di Lucia: — bada bene, ve’, di non dirgli nulla.
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Capitolo VII
Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi ordini.
— La pace sia con voi, — disse, nell’entrare. — Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione.
Sebbene nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacché il vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piuttosto inaudita che rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne abbassarono il capo; ma nell’animo di Renzo, l’ira prevalse all’abbattimento. Quell’annunzio lo trovava già amareggiato da tante sorprese dolorose, da tanti tentativi andati a vòto, da tante speranze deluse e, per di più, esacerbato, in quel momento, dalle ripulse di Lucia.
— Vorrei sapere, — gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non aveva mai fatto prima d’allora, alla presenza del padre Cristoforo; — vorrei sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere... per sostenere che la mia sposa non dev’essere la mia sposa.
— Povero Renzo! — rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza: — se il potente che vuol commettere l’ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno.
— Ha detto dunque quel cane, che non vuole, perché non vuole?
— Non ha detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commetter l’iniquità, dovessero confessarla apertamente.
— Ma qualcosa ha dovuto dire: cos’ha detto quel tizzone d’inferno?
— Le sue parole, io l’ho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragioni, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chieder più in là. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo; non ha figurato nemmeno di conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma... ma pur troppo ho dovuto intendere ch’è irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non vi perdete d’animo; e tu, Renzo... oh! credi pure, ch’io so mettermi ne’ tuoi panni, ch’io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! È una magra parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu...! non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce n’ha promesso tanto ! Lascia fare a Lui, Renzo; e sappi... sappiate tutti ch’io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora, non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; devo stare al convento tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio, per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerà. Si fa buio; bisogna ch’io corra al convento. Fede, coraggio; e addio.
Detto questo, uscì in fretta, e se n’andò, correndo, e quasi saltelloni, giù per quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una penitenza, che gl’impedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò che potesse richiedere il bisogno de’ suoi protetti.
— Avete sentito cos’ha detto d’un non so che... d’un filo che ha, per aiutarci? — disse Lucia. — Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci...
— Se non c’è altro...! — interruppe Agnese. — Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo...
— Chiacchiere! la finirò io: io la finirò! — interruppe Renzo, questa volta, andando in su e in giù per la stanza, e con una voce, con un viso, da non lasciar dubbio sul senso di quelle parole.
— Oh Renzo! — esclamò Lucia.
— Cosa volete dire? — esclamò Agnese.
— Che bisogno c’è di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli nell’anima, finalmente è di carne e ossa anche lui...
— No, no, per amor del cielo...! — cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce.
— Non son discorsi da farsi, neppur per burla, — disse Agnese.
— Per burla? — gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. — Per burla! vedrete se sarà burla.
— Oh Renzo! — disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi: — non v’ho mai visto così.
— Non dite queste cose, per amor del cielo, — riprese ancora in fretta Agnese, abbassando la voce. — Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui? E quand’anche... Dio liberi!... contro i poveri c’è sempre giustizia.
— La farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch’io. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta ; ma non importa. Risoluzione e pazienza... e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà... ! e poi in tre salti... !
L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta: — non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse... Fosse al sicuro d’ogni giustizia