I promessi sposi. Alessandro Manzoni

I promessi sposi - Alessandro Manzoni


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primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza.

      Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti , ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quella annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio , si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello , nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.

      «Che abbia qualche pensiero per la testa», argomentò Renzo tra sé; poi disse: son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.

      — Di che giorno volete parlare?

      — Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi?

      — Oggi? — replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. — Oggi, oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.

      — Oggi non può! Cos’è nato?

      — Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.

      — Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica...

      — E poi, e poi, e poi...

      — E poi che cosa?

      — E poi c’è degli imbrogli.

      — Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?

      — Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio.

      — Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è.

      — Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?

      — Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa, — disse Renzo, cominciando ad alterarsi, — poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?

      — Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.

      — Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.

      — Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti ?

      — Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?

      — Error , conditio, votum , cognatio, crimen

      Cultus disparitas , vis , ordo , ligamen , honestas,

      Si sis affinis,...

      cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.

      — Si piglia gioco di me? — interruppe il giovine. — Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?

      — Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.

      — Orsù!...

      — Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. lo, io vorrei vedervi contento, vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi...

      — Che discorsi son questi, signor mio? — proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato.

      — Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.

      — In somma...

      — In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.

      — Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?

      — Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet.

      — Le ho detto che non voglio latino.

      — Ma bisogna pur che vi spieghi...

      — Ma non le ha già fatte queste ricerche?

      — Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.

      — Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché aspettare...

      — Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma... ma ora mi son venute... basta, so io.

      — E che vorrebbe ch’io facessi?

      — Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.

      — Per quanto?

      «Siamo a buon porto», pensò fra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, — via, — disse: in quindici giorni cercherò,... procurerò...

      — Quindici giorni! oh, questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici... — riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa: — via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana...

      — E a Lucia che devo dire?

      — Ch’è stato un mio sbaglio.

      — E i discorsi del mondo?

      — Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.

      — E poi, non ci sarà più altri impedimenti?

      —


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