L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
ai sepolcri, il dolore che apre e serra le porte della vita, il dolore che regge la misura del tempo..., eterna, unica musa dell'uomo è il dolore.
Troppo innanzi tempo imparai a diffidare di molte, forze di tutte le speranze umane: io vivo in mezzo agli uomini; ma per me non chiedo, non ispero nè temo nulla da loro. E che mai potreste darmi, o gente che morirete? L'odio, la prigione, l'esiglio? Me gli avete già dati; e furono come la pietra lanciata in aria dal pazzo, che ritornò a percuoterlo sopra la testa. La compassione? Oh! trangugiate per voi cotesta tazza di aceto e di fiele: io posso sopportare il vostro odio, la vostra pietà non potrei; serbatela per voi, che voi, come me, aveste nascimento e avete la vita e avrete la morte; in voi, come in me, stanno le malattie del corpo, le imbecillità dello spirito, gli errori, i dolori, i trascorsi e le colpe.
Ingombra questa nostra terra, infelice una gente la quale, o prostrata dagli anni, o torpida di fibra, o per pinguedine fastidiosa, o cieca ad un punto e codarda, penosamente si strascina per lo esilio breve della vita e va gridando a quelli che precorrono: Adagio, adagio; nella quiete sta sicurezza. Qual mai sicurezza? E non sapete voi che la vita è un correre alla morte? La quiete non è vita. Trapassare da una in altra vicenda, agitarsi incessante nel tripudio e nell'affanno, percuotere ed essere percosso, amare, odiare, ora angiolo, ora demonio, e verme e Dio... questa si chiama vita. Se ciò sia bene o male, dimandane a colui che, potendo, non volle creare tutto ad un modo. Ma se difetto di passione l'umana felicità costituisse, l'uomo e il sepolcro sarebbero fratelli di vita, qual corra differenza tra l'uomo e la pietra vi dirà santo Stefano che morì lapidato. O impassibili! Supplicate dai sacerdoti di Giove il destino di Niobe. Badate però; Giove, aspettando i suoi successori in divinità, è fatto dio da museo, e i vostri sacerdoti hanno potenza di convertire un cuore in pietra, ma per loro soltanto: come la idrofobia, questa facoltà non passa in seconda generazione, e ciò vuolsi considerare per qualche cosa di bene ai tempi che corrono.
Odano dunque coteste genti, ma non ascoltino; guardino, ma non vedano: io abborro dal giudizio loro: e quantunque la mia voce si levi presso le dimore degli uomini, desidero che suoni solitaria quanto il ruggito del lione per le arene del deserto, come lo strido dell'aquila su i dirupi delle Alpi.
Meco stesso ragiono; adopro la facoltà d'interrogarmi e di rispondermi. Come si chiama lo spirito che dentro me interroga, e come l'altro che dentro di me risponde? La prima operazione apparterrebbe per avventura al cuore, la seconda al cervello? La potenza di argomentare procede unita o disgiunta da quella di sentire? Antichi filosofi sostennero la esistenza di due anime nel medesimo corpo. La mia anima procedeva ignara di tutto questo: lessi i libri dei filosofi e riuscii a saperne molto meno di prima. L'etiche e le metafisiche loro assai si rassomigliano alla descrizione della luna immaginata da messer Lodovico Ariosto, o al commento (Dio lo perdoni!) del Newton intorno alla visione dell'Apocalisse.
Anima, perchè vivi? L'anima vuota alla risposta mi ritorna a guisa d'eco la domanda: perchè vivi? Qualche vizio di più, qualche nobile passione di meno, e una ruga sopra la fronte, e una ferita nel cuore, ed ogni giorno un fiore caduto dalla corona della speranza... ecco i benefizii del tempo.
Anni felici della mia giovanezza, ond'è che mi passate traverso alla memoria come i ruscelli delle patrie colline al tormentato della sete? Giuochi infantili, sonni placidi, amore... perfidamente lusinghieri, versate a piene mani una rugiada di gioia su l'alba della vita per indurre la creatura a sopportare l'ardore increscioso del giorno e le più dolenti tenebre della sera.
Io sorgeva in quei giorni mattiniero quanto la lodoletta pellegrina, a ricevere sul capo la prima benedizione della luce; te, o sole, esaltava occhio di Dio, glorioso, vigilante sopra la felicità dei figliuoli di Adamo; e quando con lo sguardo innamorato aveva seguito la tua curva di fuoco ai confini dell'oceano, lo rialzava al firmamento, salutando ad una ad una le costellazioni comparse sul bruno orizzonte: però il mio spirito ebbro di raggi e di armonia spaziava con ala infatigabile su quei globi luminosi. Talvolta mi sorgeva nell'anima un desiderio di penetrare oltre il manto dei cieli i misteri di Dio, e meditando mi sprofondava per quegli azzurri sereni; se non che a poco a poco mi si facevano opachi, finalmente neri, ed io mi rimaneva esclamando: Che cosa importa conoscere? Dio vive!
Queste visioni lusingavano la mia fanciullezza, avvegnachè il mio spirito fosse innamorato di Dante e del Klopstok, i divini poeti.
Nè la terra mi si offerse meno bella del cielo. Ammirai le forme del lione, gli screzii della tigre, le liste verdi e di oro del serpente in faccia al sole; stimai l'aconito degno quanto il giglio delle valli di ornare le trecce alla bella fidanzata; non seppi la ragione per cui gli uomini celebrassero l'alloro, dalla savina abborrissero; gli steli della cicuta ebbi in pregio...
E l'oceano! Oh! Aroldo[2] si compiacque scherzare con l'onde dell'oceano, come con la criniera di un cavallo indomato: io ti amai col trasporto di un primo amore. Affidava il mio corpo al cumulo delle acque, e quando spumanti mi fremevano attorno: Ecco, io diceva, esse mormorano per il piacere di rivedermi. Sovente m'immergeva negli abissi a toccare le aliche profonde, immaginando così di stringere la mano dell'elemento diletto. Chi ridirà la gioia del sentirsi sospinto, con la velocità di un dardo scoccato, alla superficie delle acque? chi quella di osservare traverso le gocce che grondano giù dalla fronte moltiplicati all'infinito i raggi dei pianeti? Contemplava nell'emisfero l'astro dell'amore, lo riguardava poi riflesso sul mare, e mi pareva su le onde tremolasse più lieto; allora, preso dal piacere, io guizzava esclamando: Salute all'oceano, poichè Dio lo destinò a riflettere l'astro dell'amore!
E come spensierato commisi il mio corpo alle acque, così affidai la mia anima all'anima dell'uomo. Ahimè deluso! non mi era anche nota la maledizione dello spirito[3]. Io reputava impossibile la parola proferisse un pensiero non sentito dal cuore. Paragonai la vita non con la eternità, di cui non concepiva idea giusta, bensì co' secoli precorsi; e mi parve tanto breve, tanto miserabile cosa, ch'io argomentai gli uomini, sentendosi destinati ad altre sorti, poco curassero i diletti caduchi della terra. Per questo modo la vita umana immaginando quasi preparazione di vita celeste, mi piacqui fingerla uguale all'ora facile dei testamenti, in cui anche gli avari sono larghi di loro sostanza ai superstiti. Vidi gli uomini che si stringevano una mano, e non curai osservare dove celassero l'altra; notai gli amplessi, trascurai i volti: feci tesoro di qualche bello atto di cortesia, e reso cieco gridai: La creatura si ama!
Ma il tempo si portava le illusioni.
Il sole sta immobile globo di fuoco a illuminare l'ozio di pochi, l'affanno di molti, le miserie di tutti; indifferenti si versano i suoi raggi sul ferro dell'assassino e sopra la ferita dell'assassinato, sopra la vita e sopra la morte. Se Giosuè lo costrinse col miracolo a fermarsi nel cielo, non fu per benedire una pace, sì bene a illuminare una strage[4].
E quando le ombre si addensarono sopra la terra, gemei e dissi: L'ora dei tradimenti si avvicina. Guardai le stelle e mi parve impallidissero alla maledizione che il sicario nascosto nella tenebra mandava a quei fuochi di amore. Le strida delle migliaia dei disperati mi percossero, udii il pianto, vidi le mani stese verso il cielo... il cielo stava inecittabile e chiuso come una volta di bronzo, quanto una massa di granito. Non più rallegrava il mio spirito la pelle dipinta degli animali; vidi le labbra sanguinose, conobbi il veleno e commosso da troppa passione domandai alla fiera della foresta: Perchè laceri la creatura di Dio? La fiera della foresta mi rispose sbranando. Seppi la donna avere sfrondato la savina per disperdere il frutto dell'amore; calpestai la cicuta, ne svelsi le radici, le detti ai venti: invano; già gli uomini ne avevano estratto la bevanda che spense Socrate, il più virtuoso dei filosofi.
Ahimè! ahimè! Non querce, olivo e alloro, ma ferro, laccio e veleno sono le tre corone della virtù.
Il vento sorgeva impetuoso. Io me ne andai lungo le sponde del mare, e da lontano mi apparve un rompente che sbalzava nella rabbia della distruzione: presso la sponda raccoglie l'ira e la forza ad inondare la terra, ma gli si oppone la parola di Dio[5], e la superbia di lui rimase rotta traverso gli scogli in minutissimi spruzzi; si spiegò sopra sè stesso fremendo, e tra quelle spume scôrsi una tavola.... la reliquia della barca del pescatore. Da quell'ora in poi in ogni mormorare di flutto ravvisai l'agonia del pescatore, il pianto della moglie e le strida dei figli... poveri figli! Oh! tu sei forte, oceano, contro la barca del pescatore; ma con placide onde, un giorno, i vascelli Portoghesi