L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
mondo i deboli, dal continuo curvarsi, acquistano soltanto avvilimento e abbandono, cotesti abituri per la prossimità delle soverchianti magioni venivano a perdere la luce e il vivido circolare dell'aria. Procedendo oltre, penetrava con gli sguardi dentro le officine degli artefici; e tentennando il capo, contemplava quei volti plebei che la necessità colorisce e corruga, e quelle mani che muove il bisogno di un pane e la passione di un eroe; quelle mani che mosse dalla piena del cuore guadagnano una corona al capo o una catena ai piedi.
Però la virtù non si era anche fatta inusitata sotto i tetti signorili, nè la misura dell'anima procedeva alla rovescia con la larghezza dei luoghi che la ricettano: pure ella fin d'allora le modeste più che le sublimi case si compiaceva visitare.
Così di pensiero in pensiero trascorrendo e per diverse vie camminando, venne a riuscire appiè del Ponte Vecchio. Andava oltre; e giunto che fu a mezzo del ponte, si affacciò alle spallette, dove declinato il capo, si pose a considerare il corso del fiume. In quel punto la sua mente era tolta alla visione dei tempi passati. Vide un barone vestito di bianco sopra un bianco palafreno arrivare con lieti sembianti in capo del ponte, all'improvviso prorompere una mano di armati, stringersegli addosso e, senza pur dargli tempo di raccomandarsi a Dio, rovesciarlo dal palafreno e rompergli la persona di mille ferite; vide sgorgare larga vena di sangue, macchiare le pietre del ponte e la statua del nume che i pagani proposero alla guerra; ed a lui stesso sentì spruzzarsene il volto, onde atterrito recava ambedue le mani alla fronte a rimuoverne il sangue fraterno. E poi apparve il demonio della discordia, che quel sangue raccolse e, mescolato con l'ira di Dio, tornò a diffonderlo, quasi rugiada di delitto, sopra una terra sacra alla sventura: allora, fecondate dall'umore mortale, scorsero generazioni che, rinnovando il caso degli uomini usciti dai denti del serpente di Cadmo, sembrò venissero alla luce per trucidarsi soltanto: d'ira ebbre e di sangue, si lacerarono le membra, delle proprie viscere composero miserandi flagelli; le antiche sepolture, baccanti di strage, scoperchiarono, e strinsero le ossa degli avi onde percuoterne il capo ai nipoti.
Nel fragore delle acque rompentisi per le pile, echeggianti sotto gli archi del ponte, a lui parve sentire il grido lanciato dalle trascorse generazioni nei tempi futuri; suono orribilmente confuso, voragine di dolore, di pianto, di delitti e di memorie. Come narra la fama che all'imperatore Pertinace dentro la piscina si affacciasse spaventevole uno spettro a minacciarlo di morte[12], così in quelle rapide onde del fiume egli pensò vedere i secoli passati, in forma di truci gladiatori, fuggire dalle arene sanguinose e correre verso l'eternità, incalzati colla spada nei remi dei secoli succedenti. I lumi accesi sopra la riva mandavano obliquamente per la superficie del fiume lunghe strisce di luce, sicchè le onde grosse e veementi, nel trapassarle, riflettevano un raggio sinistro che bene si rassomigliava al corruscare dei ferri parricidi.
Il pellegrino non vale a sostenere i fantasmi della propria immaginazione, e gli occhi solleva al firmamento. Il cielo in parte era ingombro di nuvole, ma vi scintillava una stella splendida come la libertà, bella quanto la speranza. Quale misteriosa corrispondenza passasse tra il pellegrino e la stella io non saprei; però ei la fissava con immensa alacrità, aveva tutta l'anima trasfusa nello sguardo, e sollevò la destra come per invocarla. La stella parve battere l'ale a guisa di colomba e tremare luminosa e ingegnarsi a fuggire la nuvola nera che di mano in mano divorava oscurando il bello azzurro del cielo; invano: il nuvolo l'aggiunse, e il firmamento pianse perduto quel soave raggio d'amore. Egli allora declinò lo sguardo, dalla parte più lontana del cuore disciolse un sospiro e, vinto dalla passione, fuggiva a corsa dal ponte per sottrarsi al doloroso presentimento.
L'affanno cerca il consorzio degli uomini, la gioja spesso gli oblia: in molti ciò accade per raziocinio, e vuolsi biasimare; in moltissimi per natura, e vuolsi compatire. Il pellegrino, adesso vinto dalla passione, si risovenne dell'uomo per cui si era mosso da prima e che aveva dimenticato nella dilettevole contemplazione. Sceso il ponte, camminò per gran parte della via chiamata dei Guicciardini: già era prossimo alla fine del suo pellegrinaggio, quando gli parve vedere, e vide certo, una figura immobile davanti la casa dell'amico. Siccome avviene per la notte si presentava disegnata in nero sopra un fondo men bruno: la veste talare, che chiamavano lucco, descriveva cadendo bellissimi contorni; una mano le pendeva giù lungo la persona, l'altra sottoposta alla fronte e appoggiata allo stipite, in sembianza di statua che pianga sopra l'urna dei defunti.
Il pellegrino soprastette alquanto col cuor chiuso, aguzzò lo sguardo e sentì suo mal grado agitarsi; riprese a camminare più lento, mormorò alcune parole, levò strepito: invano; lo sconosciuto, assorto in profonda meditazione, non pareva cosa viva. Si fa più appresso, più appresso ancora: coteste forme non gli tornano ignote; esita nel ravvisarle, le ravvisa, e con tale una voce che svelava una piena immensa di affetto, una speranza adempita, forte sclamò:
«Buondelmonti.»
Lo sconosciuto anch'egli, quasi desto per forza, balzava indietro gridando:
«Alamanni.»
E l'uno nelle braccia dell'altro precipitava e sentiva sopra il suo cuore palpitare il cuore dell'amico col palpito più generoso che mai fosse concesso ai nati della creta.
Troppo gli agitava profonda quella intima melodia onde potessero significarla con parole. Come la virtù visiva per solenne splendore si acceca, così l'altissimo sentimento smarrisce la via della favella; però precorre il linguaggio dei labbri mortali un colloquio dello spirito che forse non morrà, colloquio di arterie frementi, di effluvii di vita trasfusi da una mano all'altra, dall'una all'altra guancia. Stettero muti e giubilarono e quasi benedissero i travagli sofferti da Dio che volle sgorgasse la dolcezza della gioja dall'amaro dell'angoscia, in quella guisa che finsero i poeti con le lacrime di una donna disperata si componesse la mirra, profumo soave agli uomini e agli dêi.
Quando poi si fu alquanto quetata la veemenza della passione, Zanobi Buondelmonti prese a interrogare dicendo:
«E donde vieni, Luigi?»
«Vengo di Francia, ove trovai favore presso il Cristianissimo; ma la grazia dei re all'anima repubblicana è tale un supplizio, Zanobi, che l'Alighieri nostro non avrebbe dovuto dimenticare di metterlo giù nel suo Inferno.»
«E come ti si volsero gravi gli anni dell'esilio? Ti piacque ella la terra? Ti si mostravano i cittadini cortesi?»
«L'esule, amico, e tu lo sai a prova, conserva gli occhi per piangere, non già per vedere; il cuore gli vive, ma per sentire la propria sciagura. Il pane dell'esilio mi parve amaro, e certo parve anche a te; incresciosa la casa dove non ti richiama affetto di vivente o di defunto. Il sole in sembianza di fuggiasco trascorre per quell'aere caliginoso e raccoglie a sè tutti i suoi raggi, quasi per timore di contaminarveli dentro; egli comparisce su l'emisfero come spossato dalle fatiche di aver vinto le tenebre; per gran parte dell'anno egli guarda quei luoghi colle palpebre socchiuse, ma non li veste con la magnificenza della sua luce, nè le cose riempie e gli uomini di vita e di poesia. Anche coteste terre traversano ampie riviere, ma invano cercai gli argini fioriti del patrio fiume, nè vidi percuoterne le sponde i piè leggieri di donne o di donzelle innamorate, nè riflesse in quell'onde le infinite ville di cui va lieta la prossima campagna: la Senna mi apparve a guisa di un fiume di piombo che senza fremito di acque, senza riflesso d'immagini, unito, opaco, si accostasse pesantemente al mare. Per gli uomini poi, nè il cielo nè la terra amano i miseri e l'odio degli avventurosi ti prostra del pari che il beneficio. Astero di Anfipoli tolse un occhio, lo sai, a Filippo di Macedonia con una freccia d'argento. Il potente dona per ozio, per fastidio, per tracotanza; dona ancora per debolezza o per ira, di rado per la benignità di natura o per amore del prossimo; e quando egli si avvisa di cacciare fuori un lamento sopra la ingratitudine umana, il mondo gli crede, perchè non sa o non vuole comprendere come sovente la mano che finge stendersi al beneficio meriterebbe di essere tagliata. Al misero poi che sotto la sferza dell'elemosina trae doloroso un rammarico maledicono tutti, perchè non pensano che con un fiorino può maggior ferita apportarsi che con un pugnale. Da ogni parte odi muovere lagnanze di uomini ingrati: potresti tu annoverarmi coloro i quali sanno beneficare? L'anima del cane non bada al volto di cui gli getta l'osso, ma l'anima dell'uomo rimane profondamente contristata dal modo del beneficio. Ora tu intendi come il disprezzo mi gravasse, nè meno la pietà altrui mi riuscisse importuna. Nello stato al quale venimmo condotti il cuore sta chiuso nè lascia entrarvi