L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
rovesciare Fiorenza, e invece assaltò Roma, depresse il papa e ne fece abilità di toglierci giù dalle spalle quello increscioso giogo dei Medici. Furono questi doni della fortuna; e appunto perchè doni, o poco gli avemmo cari, o ci curammo poco di custodirli, siccome dovevamo e meritavamo pur troppo; se ci avessimo speso dintorno sudore e sangue, gli avremmo per certo più diligentemente mantenuti; gli Ebrei presero in fastidio la manna, comechè soavissimo cibo si fosse, perchè gliela mandava il cielo, e senza fatica a sazietà la raccoglievano; agli uomini poi non riesce mai sgradevole quel pane che con molto travaglio essi ottengono. Le cose della fortuna si distendono molto, approfondiscono poco; quelle della virtù diversamente procedono: onde, tutto ben ponderato, io prepongo alla fortuna la virtù non infelice. Non ragionerò dei provvedimenti buoni negletti, dei pessimi seguiti dal 1494 al 1512, spazio nel quale durò la seconda cacciata dei Medici; già la storia i tempi, gli uomini e le colpe loro incise sopra le sue tavole di bronzo e le dava in custodia alla memoria. Il tempo stringe, lunga è la via; nè già si tratta adesso di speculare sopra le azioni antiche, bensì somministrare consigli per le presenti e per le future. La fortuna, poichè volse la ruota ora favorevole ora avversa ai Medici, parve romperla per loro nel 1527; rimasero uomini a pena eredi del sangue di cotesta famiglia, diseredati affatto della virtù. Andava e va tuttavia la città divisa con diverse maniere fazioni: eravi chi teneva pei Medici, e tra questi parte la monarchia assoluta desiderava, parte voleva i Medici non già signori ma capi di governo largo; della fazione avversa alcuni più odiavano i Medici di quello che amassero la repubblica, altri più amici della repubblica che nemici dei Medici, altri finalmente la tirannide al pari dei Medici detestavano. Dall'un canto e dallo altro stoltezza, tranne gli ultimi: imperciocchè nei rivolgimenti degli stati bisogni mirare a fine preciso, e le sfumature non giovano; sicchè, quando i tempi grossi incalzano, tu ti trovi senza concetto, sospinto là dove aborrivi precipitare. Il popolo rimaneva come il cammello giacente sotto il peso; lo sentiva grave, ma, scarrucolato dagl'inetti novellatori di consigli mezzani, non sapeva a qual partito appigliarsi per gittarselo giù dalle spalle. Correva l'aprile del 1527 quando Dio, accecando i nostri oppressori, consigliò al cardinale Passerini da Cortona di lasciare Fiorenza e andarsene in compagnia d'Ippolito e di Alessandro e della Corte a Castello per complire il duca di Urbino, il quale si era quivi ridotto con l'esercito della lega. Valicate appena le porte, i giovani, come quelli che nella mente loro concepivano un disegno assoluto e virile, levarono rumore, uscirono armati dalle case Salviati e, tratti i gonfalonieri delle compagnie, si recarono ad assaltare il Palazzo. Nessuno si oppose; però che gli stessi avversarii, discordando nei pensieri, argomentassero nel tempo in che faceva bisogno adoperare ferocemente le mani. Il popolo restava inerte, chè la tirannide lunga lo teneva assopito; ben era aperta al lione la gabbia, ma non osava lanciarsi; era la sua catena spezzata, ma non ardiva scuotersi per gittarne lungi i frammenti; guardava, non sapeva e, gridando libertà, libertà! applaudiva. Baccio Cavalcanti, salito in Palazzo a nome dei giovani, impose al gonfaloniere e alla Signoria bandissero i Medici: alcuni dei Signori che, per godere il benefizio del tempo, s'ingegnavano interporre indugi rimasero feriti; mandato a voti il partito, nessuno dissenziente, i Medici ebbero il bando. Consiglio audace, provvidenza infelice. I cardinali Cortona, Cibo e Ridolfi, avvisati del caso, tornarono spediti a Fiorenza, il conte Noferi li precedeva con mille fanti: facendo loro spalla i partigiani dei Medici, senza nessuno impedimento trovare, penetrano in Fiorenza e procedendo incontrano davanti la chiesa di San Pulinari Tomaso Ciacchi della repubblica svisceratissimo; toltolo in mezzo, comandano gridasse: Viva i Medici! rifiutava; percosso, nel rifiuto si ostinava; ferito mortalmente sul capo, più e più sempre esclamava: Dio e libertà! Il popolo guardava, non sapeva e gridando: Palle, palle! applaudiva. Insanguinata la terra di quel nefando omicidio, assaltano il Palazzo; i giovani, comechè in tutti avessero sette archibusi, deliberano a difendersi. I Palleschi, i quali poc'anzi paurosi si nascondevano, adesso prorompono, più infesti, come suole, coloro che si mostrarono più vili; arde la porta del Palazzo dalla parte degli Antellesi; all'altra puntate le picche, le spingono di forza, sicchè le imposte curvandosi meglio di un braccio si scostano dagli stipiti. Se in quell'ora di turpe baldanza i soldati dei Medici entravano in palazzo, la patria nostra avrebbe pianto lacrime amare sul fiore della sua gioventù trucidato. A Dio piacque che quel santissimo e forte petto d'Iacopo Nardi quivi a sorte si trovasse rinchiuso; in quel fiero trambusto, punto egli smarrendosi di animo, confortò i compagni a far testa anche un momento, e dipoi, salito sul ballatoio (come colui che di ogni particolarità spettante alla patria era indagatore e conoscitore solenne), scopriva certe pietre colà a disegno raccolte e in modo disposte che, leggermente intonacate al di fuori, sembravano un fermo parapetto; allora rotti i lastroni delle buche, uniti nel proponimento di salvare la patria, precipitarono cotesti sassi sul capo agli assalitori[14]. Se alla improvvisa rovina fuggissero coloro, non è da dire; lasciarono le porte, l'incendio fu estinto, e, peritandosi di accostarsi da capo, presero a sbarrare le strade. Sopraggiunsero intanto i signori della lega; Federigo da Bozzolo intervenne mediatore in nome di Francia, e chiariti i giovani intorno la vanità delle difese, assicurati di universale perdono dal cardinale Cortona e da Ippolito concesso, dal duca di Urbino guarentito, dopo alcune pratiche, ottenne il Palazzo restituissero. Io non incolperò di siffatto evento veruno; imperciocchè, quantunque non fossero presi i necessarii provvedimenti a mantenere la libertà, tuttavolta, anco presi non avrebbero, atteso il tempo breve, giovato; quello di cui riprendo i cittadini più savi si è questo, che o il moto non impedissero, o insieme non cospirassero prima, onde o potesse sostenersi meglio, o venisse con più onore a mancare. La caduta di un popolo deve essere tale, carissimi miei, che lasci memoria di terrore ai tiranni, legato di vendetta ai figliuoli degli oppressi; tra il popolo sommosso e un re bandito, unico patto il sepolcro; sta sulla sua spada il perdono; affetti, giuramenti, onore e Dio sono onde che rompono nello scoglio dell'interesse di regno. Questo per lo addietro si è visto, e tolga Dio che si veda anco in futuro: però torno a ripetervi che, tratto il ferro una volta, il popolo ha da gettarne via il fodero; dove tanto si acciechi da riporlo finchè il suo nemico non giaccia cadavere, invece di cacciarlo nel fodero, se lo caccerà nelle viscere; e di questo stia certo. Invece il cardinale Cortona, a ciò indotto dal conte Pietro Noferi, mandava a Roma una nota di gente da uccidere, comechè perdonata; e se la paura di maggiori disastri non tratteneva Clemente, avreste veduto un po' voi, come diceva Luca Albizzi, se sapeva ben egli schiacciare il capo ai colombi rimessi in piccionaia. La fortuna ad ogni modo ci voleva liberi: il 12 maggio giunse notizia del sacco di Roma dato dagli imperiali, il papa a stento rifuggito in castello. Il cardinale Cortona, povero di consiglio, nè voleva fidarsi altrui nè da sè era bastante a prendere un partito: i soldati chiesero le paghe; Francesco del Nero cassiere del pubblico nega i danari e ripara a Lucca; il Cortona, di natura miserissimo, piuttostochè rimetterci del suo, si sprovvede di quella estrema difesa e dichiara volere lasciare il governo della città. I giovani, immemori del passato pericolo, tornano ai tumulti; per questa volta la fazione degli ottimati, incapace a muoversi, riesce a trattenerli. La Clarice moglie di Filippo Strozzi va a casa Medici ed aspramente ripresi Ippolito e Alessandro di aversi voluto fare tiranni, li consiglia a partirsi; s'ella non era, nessuno ardiva abbattere cotesta tirannide cadente: nè in lei fu tutta virtù, sibbene o petulanza donnesca, o rancore contro il sangue illegittimo di casa sua, o sdegno contro papa Clemente che non volle creare cardinale Piero suo figlio, e mandato il marito Filippo a Napoli per ostaggio dell'accordo conchiuso con i Colonnesi, non lo aveva poi atteso, ponendolo così in pericolo presentissimo della vita, o finalmente speranza, cessato il governo dei Medici, di vedere la sua famiglia principale in Fiorenza. Mentre la Clarice, accesa nel volto con voce alta così favellava, si levò rumore tra i soldati della guardia; un archibuso fu sparato contro di lei, sicchè tra crucciosa e atterrita quinci si dipartiva, accompagnandola i più notevoli cittadini. Intanto si raguna in Palazzo la pratica per deliberare intorno ai casi presenti. Filippo Strozzi, a grande istanza pregato da Ippolito, si reca alla Signoria per ritirare la dichiarazione del Cortona intorno all'abbandono del governo di Fiorenza; ma la pratica aveva già vinto una provvisione per la quale si convocava il consiglio grande e, creatosi intanto un reggimento che tenesse gli uffici fino al 20 di giugno, i Medici in condizione privata si restituivano. Senonchè i giovani, prudentemente pensando, cessato il regno, non potere il principe più oltre abitare la città, tranne morto, accennano prorompere. Allora Nicolò Capponi, Filippo Strozzi, Giovanfrancesco Ridolfi ed altri maggiorenti, i quali, siccome corse fama, già da buon tempo innanzi si erano concertati a Legnaia, confortarono i Medici a dare campo su quella prima caldezza alle ire popolari, ritirandosi al Poggio.