Cecco d'Ascoli: racconto storico del secolo XIV. Fanfani Pietro
CAPITOLO XLIX. LA DIPARTENZA.
CAPITOLO L. LA TRAMA PIGLIA CORPO.
CAPITOLO LII. L'ESAME DI FRATE MARCO.
Il nome di Pietro Fanfani è già tanto noto e venerato nella repubblica delle lettere, che temo quasi di venir tacciato di arroganza intraprendendo a scrivere alcune poche parole che devono servire in tal qual modo di introduzione ad un suo libro. Onde scansare questa taccia mi sia lecito di recare anzi tutto alcuni cenni sulla storia della presente edizione dell'eccellente romanzo del gran filologo italiano.
Verso la metà dell'anno 1870 il Fanfani, cui piace onorarmi della sua amicizia, mi era cortese di un esemplare della edizione del suo Cecco d'Ascoli fatta nell'anno medesimo a Firenze. Dopo averlo letto e riletto non potei fare a meno di giudicare che questo del Fanfani fosse un romanzo da porsi allato ai pochi buoni della letteratura romanzesca italiana, e da porsi in ischiera coi Promessi Sposi del Manzoni, colla Margherita Pusterla del Cantù, col Niccolò de' Lapi di Massimo d'Azeglio e con altri romanzi di questo genere. Anzi, io non dubitai un momento il Cecco d'Ascoli essere in diversi riguardi assai più bello dei romanzi or' ora nominati. Per dirne soltanto una, quella lingua tanto bella, semplice, pura e schietta nella quale è scritto il Cecco tu la cercheresti invano altrove. In me si risvegliò adunque il desiderio di veder stampato il libro in questa nostra Biblioteca d'autori italiani, alla quale esso sarebbe stato di non lieve ornamento. Ne scrissi adunque al Fanfani, il quale con quella sua amabile modestia che è propria soltanto degli uomini veramente grandi mi rispose: «Che quel libro sia ristampato a Lipsia lo terrei per grande onore; e però le dò carta bianca rispetto alle condizioni da porsi all'editore; il guadagno è sempre l'ultima cosa ch'io cerco. Faccia dunque e disfaccia, certo di piacermi in qualunque modo.» I patti furono stipolati senza veruna difficoltà, e stipolati che furono il Fanfani mi scriveva di nuovo: «Avrei caro che la edizione la curasse Lei; e che mi proponesse quelle altre correzioni che le paressero bisognare, facendo poi sull'opera tutte le annotazioni, discorsi ecc. che crederà meglio.» Quantunque occupato assai di altri miei lavori letterarii accettai nondimeno prontamente la proposta di curare la stampa, lieto di poter così in certo modo mostrare la mia gratitudine verso l'egregio autore. Correzioni da proporre io poi non ne aveva, neppur trovai che ci fosse uopo di annotazioni o discorsi. Ben si avrebbe potuto fare un discorso storico e critico sopra l'infelice Cecco d'Ascoli, l'eroe principale del romanzo; senonchè l'autore stesso nel suo libro ne dice assai per i lettori dello stesso, e i dotti non andranno a cercare ammaestramenti critici o scientifici in un libro che vuol essere ed è popolare. Soltanto mi parve, che alcuni fra i lettori del libro che non conoscono più che tanto la moderna letteratura e filología italiana, avrebbero forse caro di fare un po' di conoscenza col celebre autore del Cecco d'Ascoli, e che perciò alcuni brevi cenni biografici non sarebbero fatica gittata al vento. Communicai quest'idea all'autore e ne ebbi la sua approvazione; soltanto egli mi pregava di non voler scrivere sopra lui in modo tale da offendere la sua modestia. Questo desiderio m'indusse a premettere le osservazioni qui sopra, dalle quali si vede che il Fanfani non richiese lui nè che il suo libro si stampasse nella Germania, nè che vi si aggiungessero cenni biografici, ma che egli condiscese soltanto amichevolmente al desiderio da me espresso.
Tanto basti della storia della presente edizione. Intorno all'edizione stessa vi spenderò alcune brevi parole alla fine del presente discorso. Sopra la vita e le opere dell'autore trascrivo imprima quanto ne dice il Pitrè a pag. 65-70 dei suoi Profili biografici di contemporanei italiani (Palermo 1864)[1], su cui il Fanfani medesimo così mi scriveva: «Non so chi fornisse i materiali al sig. Pitrè, ma sono assai esatti.» Il Pitrè dunque scrive:
«Nacque il Fanfani a Pistoja nel 1817, da famiglia piuttosto agiata anzichè no. Maschio unico, fu educato assai amorosamente, e le carezze gli nacquero a segno che nella prima età diede cattivi indizi della sua riuscita, e fu pessimo scolare. Il padre si vide necessitato a metterlo per castigo sotto la custodia di un suo fratello prete in campagna, dove il lasciò un intiero anno. Tornato, e messo sotto a privati maestri, imparò assai bene, ma la sua indole era sempre irrequieta e riottosa. Finiti gli studi di grammatica, e passato a quelli di lettere sotto il canonico Giuseppe Silvestri, grande rettore, eccellente scrittore latino e valente scrittore italiano e l'unico che ridestasse in Toscana lo studio della Divina Commedia, passava a quelli di filosofia sotto il Mazzoni. Prima dei diciott'anni si volle mettere allo studio delle scienze mediche nella scuola dell'ospedale di Pistoja; ma più che alla medicina, badava a coltivare le lettere, nelle quali trovava il suo vero elemento, senza però far senno; cosichè il padre di lui, che per disgrazie patite volgeva a povertà, fu costretto a cercargli una situazione nella milizia, e lo mise a fare il soldato, dove stette venti mesi, nella segreteria di un colonnello. Morto il genitore ed avuto il congedo, riprese gli studi medici, ma senza frutto, e li abbandonò nel 1838, per darsi solo alle amene lettere.
«Nel 1847 incominciò a Pistoja un giornale intitolato Ricordi filologici che ebbe buon successo e fu da molti applaudito; ma lo interruppe un anno dopo, per andare coi volontari toscani in Lombardia, dove preso colle armi alla mano (ed armi non istate oziose[2]), e fatto prigioniero degli Austriaci, il 29 maggio fu cogli altri suoi compagni condotto a Mantova, e poscia a forza di marciate assai penose nel forte di Theresienstadt, sull'estremo confine della Boemia, donde uscì nel settembre, al concludersi dell'armistizio solasco. Ritornato in patria ripigliava lo studio delle lettere e, amico del Gioberti, era da lui chiamato in Piemonte, nel Ministero di Pubblica Istruzione; ma salito al potere il Pistojese Franchini, si avea da lui ufficio onorato nel Ministero di Toscana. Dopo la restaurazione del Lorenese era mantenuto in ufficio, ma guardato sempre con sospetto. Non ostante qualche opposizione, dava mano a un nuovo giornale di Filologia, Letteratura, Istruzione Pubblica e Belle Arti, cui metteva il titolo di Etruria, bene a ragione encomiato dal Gioberti. Nel 1859 veniva eletto bibliotecario della Marucelliana, e poi nel 1861 con decreto del principe di Carignano, chiamato a reggere la Biblioteca Nazionale di Napoli, carica che non volle il Fanfani accettare[3].
«Moltissime sono le opere di lui, ma non tutte del medesimo interesse[4]. Aspettando che egli, nella età in cui si trova, regali alle lettere lavori veramente degni della sua dottrina, come gli ultimi dati fuori, ci facciamo ad enumerare i principali: 1º. Il Vocabolario della lingua italiana (Firenze, Le Monnier 1856), lavoro pensato e coscienzioso dove in mezzo a tanti difetti (alcuni dei quali già stati notati dal Viani) risplendono pure pregi infiniti[5]. 2º. I Diporti filologici (Napoli 1858), dialoghi già pubblicati in vari periodici, e benchè dispaiano gli uni dagli altri negli speciali argomenti, veggonsi tuttavolta assai bene congiunti insieme per tendere a quell'unico scopo di scrivere bene l'italiano[6]. 3º. Le Osservazioni sui primi fascicoli della quinta impressione del vocabolario della Crusca (Modena 1849). Questa scrittura fu causa di molti dispiaceri al Fanfani, e diede argomento perchè tra lui e gli accademici della Crusca s'impegnasse una disputa che si mantenne viva per qualche tempo e venne acquistando molta celebrità in Toscana. Il Fanfani avea colla sua natural franchezza dichiarato, che i sette fascicoli di quella impressione erano erronei, anzi un vero plagio, una rapsodia, e lo avea solennemente espresso in una dedicatoria di quel suo scritto al Parenti. La Crusca se l'ebbe per male, e invitò uno dei suoi socii a rispondere. Il Salvi fu quello che volle mettersi a battagliare col filologo pistoiese, scrivendo le più orribili villanie. L'Arcangeli, imitando il Salvi, nelle ultime