AbrakadabraL Storia dell'avvenire. Ghislanzoni Antonio
come le cartelle del notaio? Non basta il saperli veri, necessariamente esatti come il prodotto di una addizione, come la logica di un calcolo algebrico?
«Osiamo dunque!… Poichè la definizione mi sfugge; poichè il verbo si rifiuta ad esprimere l'idea—sforziamoci di tradurla in una serie di fatti!
«Che è mai l'Abrakadabra se non il programma, lo scheletro di tutta la istoria umana? Completiamolo—riempiamo le lacune, vestiamolo di muscoli e di nervi! Ch'egli si muova, si agiti, precorra gli spazii dell'avvenire!… Tutti lo riconosceranno, lo comprenderanno, e l'umanità dovrà arrendersi all'evidenza del suo concetto…»
CAPITOLO VI.
Eureka!
Il signore aveva trovato. Snodò le mani dalla fronte, prese un gran foglio di carta, e in mezzo a quello disegnò con la penna la figura cabalistica del suo concetto:
A B R A K A D A B R A A B R A K A D A B R A B R A K A D A B A B R A K A D A A B R A K A D A B R A K A A B R A K A B R A A B R A B A
La mente del signore non era punto affaticata dal cozzo di tante idee, di tante ipotesi mal definite e peggio coordinate. Quella rassegna aveva portato il suo frutto. Gli aveva suggerito il modo più ovvio per esprimersi. Egli non cercava di meglio.
Vegliò tutta la notte sull'Abrakadabra. Quando il medico e i domestici entrarono, al mattino, nella sala, trovarono il signore seduto al tavolo, cogli occhi fissi alla figura cabalistica, intorno alla quale avea disegnato un laberinto di lineette e di segni misteriosi, un intreccio di circoli e di triangoli bizzarramente collegati; e in quello sfondo egiziano, inverosimili accoppiamenti d'uomini e di belve, di alberi e di case, una nuova generazione di animali e di vegetali sospesi o inchiodati alla periferia di un mondo impossibile.
Il medico, che era entrato in punta di piedi, si pose dietro le spalle del signore, e contemplava quegli sgorbi con espressione di pietà.
—Non sarebbe tempo di prendere un po' di riposo?—disse il medico a mezza voce, come temesse di produrre una scossa troppo violenta sui nervi dell'amico.
Il signore, colpito da quella voce, tracciò rapidamente sul margine superiore del foglio alcune lineette ondeggiate, e volgendosi al medico col sorriso più sereno:
«Grazie del buon suggerimento, gli disse! ora che il lavoro è compiuto, posso mettermi a letto col cuore tranquillo. Da dieci mesi non ho mai gustato il bisogno del sonno come in questo momento».
Il medico, come era usato di fare ogni mattina, portò la mano al polso del signore, e parve molto sorpreso di trovarlo in piena calma.
—Sono guarito!—disse il signore levandosi in piedi—l'Abrakadabra è spiegato… Esso è qui… su questo foglio, e quando mi piaccia, io potrò leggerlo all'universo e farlo comprendere a tutti.
—Che!… queste linee?… questi geroglifici?…
—Sono la storia dell'avvenire, sono la soluzione del grande problema mondiale—disse il signore coll'accento della convinzione più serena.—A rivederci… domani… volevo dire… stassera…!… fa di invitare tutti i nostri conoscenti… Che tutti prendano parte alla festa!… Io sono guarito!… perfettamente guarito!
Il signore piegò il foglio, se lo pose in tasca, ed uscì per avviarsi alla sua camera da letto.
Il medico e i due domestici stettero parecchi minuti a guardarsi in faccia; nè potevano riaversi dalla sorpresa.
—Ch'egli sia guarito davvero?—pensò il medico.—Tanto meglio! Io avrò guadagnato della celebrità a buon mercato… e in pochi anni potrò avere il mio posto alla direzione della Senavra!… Così va il mondo, e bisogna lasciarlo andare così per il meglio di tutti!
Il nostro medico aveva assorbito il sistema filosofico dell'Abrakadabra senz'avvedersene.
Per tutta la giornata il signore fu invisibile. I domestici, inquieti, più volte avevano spiato all'uscio della sua camera da letto—nessun rumore, nessun movimento.
Il medico, verso tre ore, entrò nella camera. Il signore dormiva profondamente.
Gli ordini erano stati eseguiti. Fu preparato un copioso desinare. Il sindaco, il farmacista, il curato, il marescalco, il barbiere ed altri notabili del paese furono invitati.
Nessuno mancò all'appello. A sei ore tutti si trovavano nella sala. Il signore entrò festevolmente, strinse la mano di tutti, e accennò ai commensali di sedere.
Inesplicabile cangiamento!… La fisonomia del signore non era più quella del giorno precedente. Pareva ringiovanito. Un raggio di benessere, di felicità, brillava nel suo sguardo, nella candidezza vivace della sua fronte. La callotta turchesca era scomparsa, e i capelli abbondanti e crespi si espandevano intorno alle tempia d'alabastro, scolpite di intelligenza e di bontà. L'abbigliamento era semplice nella sua eleganza. Il soprabito, aperto sul petto, metteva in evidenza il candore irreprovevole dei lini leggermente ombreggiati da una barba tizianesca.
Al principiare del pranzo, nessuno parlava. Lo stupore imponeva alle lingue. Ma il signore, con una disinvoltura, con una spigliatezza ammirabile, aperse la conversazione e ridonò la loquela ai commensali.
Parlava di tutto. Sfiorava gli argomenti più serii con una leggerezza che toccava l'affettazione. Il curato non poteva darsi pace in udirlo celiare sul tema delle scomuniche e sulle strategie bellicose di monsignore De-Merode. Il farmacista più volte dovette fremere nel vedere il suo Garibaldi degradato al confronto di Cavour, e la reggia di Torino ritenuta più modesta della reggia di Caprera.
Il sindaco, che credeva passarsela netta dagli attacchi, sull'ultimo dovette trasalire per una terribile sentenza: i moderati, per trovarsi nel centro dei due partiti estremi, non hanno altro vantaggio che di essere più prossimi alla ghigliottina di questi ed alla forca di quelli.
Il signore si divertiva a tormentare i suoi commensali politici con una sequela di proposte contradittorie, di domande equivoche, di sarcasmi, di sofismi provocanti. Egli sorrideva trionfalmente del loro imbarazzo, e tratto tratto lanciava una ironica occhiata al marescalco ed al barbiere, i quali, senza comprendere, aderivano a tutto.—«Essi mangiano e approvano—pensava egli—ecco la maggioranza, il coro di tutti i drammi sociali, il fondo massiccio di tutte le storie».
In sul finire del pranzo, per un gusto di rappresaglia naturalissimo a chi si sente umiliato da una eloquenza intrattabile, il curato fece una sortita veramente pretesca, dove il malumore e la stizza spiccavano in tutta buona fede.
«A dire il vero… signor mio—e voi non vi meraviglierete, nè v'offenderete d'una cosa cotanto naturale—c'erano molti in paese… e anch'io fra questi—vi parlo schiettamente—c'erano molti, che a giudicarvi dalle apparenze esteriori e sopratutto dalla vostra taciturnità… vi credevano…
—Pazzo… non è vero?…
—Io non avrei osato dir tanto—proseguì il curato—ma, poichè la signoria vostra ha voluto buttarla fuori netta e schietta—credo inutile temperare l'espressione con dei sinonimi, che presso a poco si equivarrebbero…
—A meraviglia!… La verità, bisogna aver il coraggio di dirla per intero… Io fui pazzo—ed il mio ottimo medico potrebbe attestarlo meglio di chicchessia—io fui pazzo pel corso di oltre dieci mesi; e la mia guarigione non data che da poche ore. Io mi era smarrito in un immenso laberinto di idee; io mi esauriva in uno sforzo del pari tormentoso che impotente per trovare ad esse una formola precisa ed evidente all'altrui intelligenza. Io cercava questa formola nelle vostre polemiche, nelle vostre interminabili discussioni. Era il mio torto. Seguendo questo sistema, io non faceva che alimentare la mia pazzia coi riflessi della vostra. Ah! perchè io ricuperassi la mia ragione,