Ombre di occaso. Alfredo Oriani

Ombre di occaso - Alfredo Oriani


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a tutti gli oggetti come un triste sudore di malattia, ma il pettirosso già arrivato canta ballonzolando sulla siepe. Ancora pochi giorni, e questa squallida vecchiezza dell'anno si ravvolgerà morta nel molle sudario della neve sotto il bianco silenzio dell'inverno. Adesso i contadini arano taciturni gettando il grano nei solchi, che il rastrello uguaglia e riga come un pettine. Tutto è stanco in questa prima preparazione della semina per l'anno venturo, perchè la speranza è ancora lontana, al di là dell'inverno, la stagione delle lunghe veglie e dei lunghi dolori.

      Il vento passando la notte sui campi brontola fra i rami sfogliati; talvolta la bestemmia dei carrettieri, che il fango attarda per la strada, batte alla mia finestra mentre scrivo. E pare anche a me di essere in una via fangosa sotto un cielo nero, ma non ho come essi una meta e un cavallo per compagno. I tordi zirlano rapidi ed invisibili nella notte per arrestarsi forse nelle panie ai primi raggi del giorno, se prima non si acquattino vinti all'incanto di un qualche fanale, come nella memoria i ricordi s'incantano talora ad una lucida imagine.

      Questa lettera oramai troppo lunga diventa ai miei occhi uno di quei raggi, dai quali le pupille non sanno staccarsi: il mio pensiero lo solca verso di voi dentro un abbarbaglio, mentre le parole mi echeggiano lungamente nell'anima stanca del proprio silenzio. Ho aperto la finestra: il cielo è tornato sereno, la luna brilla sulla cima di Monte Mauro, illuminando di un tacito chiarore la collina gessosa allo sbocco della valle: laggiù il fiume borbotta malcontento, ma un sogno di pace è già entrato nel sonno della campagna.

      Quante anime innamorate si levano a volo nel lume di questa notte autunnale dalla terra assopita nella lunga fatica dei frutti?

      Fra poco il vento ricomincerà a soffiare, perchè lassù in cima della valle, ove i colli dell'Appennino si addossano come un muraglione, alcuni crocchi di nuvole sono rimaste in vedetta.

      Adesso, nel silenzio, s'intendono dei murmuri: sono forse i pipistrelli che incontrandosi scambiano un avviso, forse gli ultimi saluti delle foglie che si staccano dagli alberi, forse i fremiti delle gramigne sradicate dai campi, gettate a mucchi, non morte ancora. Molte anime attendono i messaggi dalla notte e le rivelazioni dal silenzio: ascoltate, signora, le confidenze che esalano dai solchi inargentati dalla rugiada, il dialogo sommesso degli insetti svegliati dalla luna: qualcuno luccica come una gemma o vola lieve come un sogno. Che cosa dicono gli alberi, i quali serberanno il verde mantello nell'inverno, agli altri già nudi in una miseria di scheletri? Che cosa ne pensa la luna uscita senza il solito zendado dell'alone, essa che guarda tutta bianca e pare stupefatta?

      I suoi raggi pendono a gocce dai ragnateli sospesi tra albero e albero, perchè i silfi possano berle nel loro volo, sono piuttosto i lampadari di una festa, che piccoli, invisibili, felici, si danno questa notte nel mio orto?

      Ecco che il vento ricomincia soffiandosi innanzi le nubi come cenci.

      Fra cinque o sei ore l'alba dovrà passare certamente sotto la pioggia come la diligenza, che ogni mattina scende sotto la mia finestra sino a Riolo: un viaggio di spola, breve e monotono, eppure il vetturino è sempre allegro.

      Ogni qualvolta m'incontra, agita la frusta e con un largo sorriso mi grida inevitabilmente:

      — Arrivederci! —

      Vi saluto anch'io così.

       Indice

      — Qu'est-ce que ça prouve?

      Domandava un abate uscendo dall'Opera dopo avervi udito l'Orfeo di Gluck.

      E siccome egli era uno studente di matematica, tutti gli uomini di spirito si credettero in diritto di sbertarlo: quindi gli artisti, nel loro orgoglio di anime incomprese, consacrano quella sua interrogazione alla gloria di esprimere tutto il ridicolo della pedanteria scolastica.

      Eppure non è così.

      Da oltre mezzo secolo le teoriche della musica drammatica hanno cambiato. Confondendo dramma e musica, si volle che questa dovesse significare l'epoca, il carattere, l'azione, tutti i moti di quello: non si riconobbero più differenze tra la frase scritta e la frase fonica, anzi si giudicò l'una meno viva dell'altra. La musica diventava così il linguaggio delle passioni e delle idee, precisandone i gradi, distinguendone le contradizioni, anche nel loro più repentino coagularsi o nella loro più lenta dissoluzione.

      La musica invece non può rendere nè una idea, nè un uomo, nè un'epoca; il suo linguaggio non oltrepassa l'espressione di sentimenti rudimentali ed universali, vaghi sempre, perchè la sua è appunto una voce dell'indefinito. Aprite qualunque spartito senza leggerne il titolo, e provatevi dalla musica ad indovinarlo: scegliete un melodramma, mutatene l'epoca, i personaggi, l'azione, e nullameno seguiterà ad essere bello, se in questa mutazione avrete rispettato il rapporto primordiale dei sentimenti e delle sensazioni, non gettando un gruppo di frasi melanconiche su parole allegre, o adagiando una scena nella concitazione di un crescendo.

      Quell'abate, uscendo da uno dei nostri teatri lirici, avrebbe ancora ragione di ripetere la stessa domanda a tutti i melomani, che parlano di ambiente, di color locale, di dramma storico e mitico, di commedia antica e di idillio moderno, di musica sacra e profana: qu'est-ce que ça prouve?

      Invece l'idillio, la commedia, il dramma, la tragedia diventano davvero una prova, rivelando tutta l'anima umana in pace o in guerra contro il destino nell'immutabile carattere della propria individualità, nel giudizio supremo della coscienza sulle opere, che vi si compiono. Ma che cosa prova la musica, dopo tanta vanteria di teoriche ed esplicazione di critici e credulità di pubblico cogli ultimi melodrammi, pei quali le spese di rappresentazione sorpassarono i limiti più lontani della fantasia? Tutta l'opera e tutti i personaggi sono nella esteriorità del costume e della scena: chi potrebbe davvero, chiudendo gli occhi, distinguere nel canto la gelosia di un baritono mascherato da generale egiziano da quella di un altro baritono vestito da crociato o da gentiluomo del rinascimento? Come indovinare la collera della gelosia fra tutte le altre della superbia o dell'avarizia, se il baritono non la spieghi colle parole? Poichè in ogni amore vi sono momenti di purità divina, come riconoscere l'invocazione alla fanciulla adorata da una preghiera alla mamma? Come la musica potrebbe non confondere nella propria espressione la gioia suprema di un ritorno con quella di un riconoscimento?

      Il finale della Norma rimane ancora il più bello dopo l'altro del Tristano e Isotta, ma nessuno dei tanti letterati, che hanno scoperto nella musica di Wagner così profonde significazioni filosofiche e drammatiche, ignorando i due libretti, indovinerebbe la differenza della morte fra le due coppie egualmente tragiche di amanti.

      La musica fu e sarà sempre lirica e non esprimerà mai nè caratteri, nè situazioni, nè epoche, nè figure, nè la coscienza, nè la intelligenza, nè la religione di Dio o una qualunque altra. La sua qualità, contradittoria a tutte le arti, sta appunto nella espressione senza imagine; laddove architettura, scultura, pittura non esistono che per questa, e la poesia stessa colle parole la riconduce nella memoria o la suscita nella fantasia. Mentre i segni si aggiungono ai segni e le parole alle parole dinanzi ai nostri occhi, che dalla loro permanenza finiscono coll'accoglierne la intera visione, le note invece cessano una dopo l'altra al nostro orecchio, che non può intenderne la frase se non dal loro successivo dileguarsi. La musica si rivela morendo in ognuno dei propri suoni: ed ecco perchè ci appare immateriale ed indefinita.

      Il suo linguaggio subisce le leggi dei numeri, ma la sua significazione non può essere tradotta da alcun altro. L'orecchio, più spirituale dell'occhio poichè non vi passano le imagini delle cose, ripercuotendo i suoni nell'anima, lascia che ella vi si libri leggera; e l'anima, sospinta da una voce senza parole e senza idee, si sente come dissolvere nell'incantesimo di una rivelazione misteriosa. Già qualche cosa manca ad ogni linguaggio. Quello dell'architettura, il più povero, non esprime che una categoria dell'intelletto, l'ordine nella misura; la scultura è senza colore e senza ambiente; la pittura non ha che una superficie; la poesia è costretta a richiamare l'imagine colla parola, lasciando fuori di questa i pensieri troppo grandi e le sensazioni troppo piccole; mentre la musica aiuta di se stessa tutti i linguaggi, ma parla solamente sul confine, ove questi si


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