Ombre di occaso. Alfredo Oriani

Ombre di occaso - Alfredo Oriani


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solitudine, magari evocandola dal pianoforte, il più odioso degli strumenti che la perversione dell'arte abbia concesso ai dilettanti. Il pianoforte è la cassa mortuaria dell'arpa; coloro, che vi martellano sopra, mi fanno pensare alle commemorazioni dei grandi morti declamate da piccoli vivi sulla folla scempia dei partiti.

      Una musica dorme in tutte le parole: sollevatele, disponetele secondo la prosodia, e ne uscirà una vibrazione tenue e possente, lunga come un'eco o improvvisa come uno scoppio. I poeti lo sanno bene quando dicono che il verso è tutto, ed invece è solamente quella musica che la poesia può contenere, mentre questa è ben altro. Infatti il dramma, una delle sue forme più vive e profonde, si attenua nel verso e vanisce nel canto, perchè basta appena il linguaggio reale per rivelare colla più ricca molteplicità di espressioni le antitesi morali dei caratteri. Shakespeare alternava prosa e verso, quasi trattando questo come quella, ma il suo Otello e il suo Amleto messi in musica non sono più che due manichini, dal ventre dei quali qualcuno canta. Non avendo letto Shakespeare, chi indovinerebbe le due tragedie dai due melodrammi? Che cosa è diventato il Faust di Goethe in quello di Gounod o nel Mefistofele di Boito o nella Cantata di Berlioz, pur superiore ad entrambi nell'impeto della passione e nella originalità dell'ingegno?

      I grandi poeti non amano la musica.

      Essi pensano inconsciamente per imagini, e l'eccellenza deriva in loro dal vedere ciò che gli altri non veggono dal vederlo più intensamente. Tutto si personifica nella loro fantasia, le idee più astratte e le cose più morte: prestano un'anima alla materia, i caratteri umani a tutte le anime, quindi cercando l'essenza s'indugiano nella scoperta e nell'adorazione di ogni forma. La musica non è per loro che una vibrazione della parola, come pei pittori l'ombra è un prolungamento dei corpi. La musica vera, che canta sopra sillabe slegate, effondendosi in un infinito vuoto e palpitante, finisce per irritarli: il loro occhio cerca involontariamente i contorni di una figura, la loro passione si condensa in un carattere, le loro idee si atteggiano in una scena.

      I grandi poeti hanno la precisione dei grandi scultori; i grandi retori invece prediligono le apparenze capziose del colore nel labile incanto della visione: ecco la prima differenza fra Dante e Victor Hugo. Per i poeti il canto non può oltrepassare mai la parola: essi vivono nel verbo, e gli chiedono ad ogni istante una resurrezione.

      Non credete quindi, signora, ai poeti che vi dicono di amare la musica, e sopratutto guardatevi dallo stimare Wagner un poeta per avere raffazzonato nei propri libretti alcune vecchie saghe.

      Un poeta vero sentirà sempre che un melodramma non può essere un dramma: avvolgere questo nella musica sarà per lui come immergere un quadro nell'acqua: i colori si squagliano e le figure si confondono. L'anima nel canto si abbandona ad una esultanza di liberazione da tutti i vincoli della vita reale; nel dramma invece i caratteri debbono irrigidirsi disciplinando le forze nella necessità della lotta, e poichè la morte vi diviene la prova suprema della vita collo spezzare coloro che questa non sa mutare, uno spietato egoismo di naufragio rivela dalla scena l'ultima verità delle anime.

      Se il canto sale spesso dal dramma, non può esserne il linguaggio continuo: qualcuno avrà forse cantato anche nelle mischie più atroci, ma nessuna musica espresse mai il tumulto della loro strage. Leggete una battaglia di Erodoto o di Tolstoi, e confrontatene in voi stessa le sensazioni con quelle del famoso coro delle Walkirie; dalle pagine dei due grandi scrittori vi verrà il freddo della morte, nelle voci delle nordiche amazzoni non sentirete che una minaccia festante e spavalda.

      Ma il pubblico, dimentico di ogni altra arte, diserta tutti i teatri per quello dell'opera.

      Nel nostro tempo la poesia e la scultura non sono più intelligibili che a pochi iniziati, la pittura non lusinga in noi che un bisogno di decorazione: le esposizioni si ripetono come mercati di privilegi e privilegiati, pellegrinaggi di piacere, un affare politico o industriale, quasi sempre losco, raramente fortunato. Il lusso effimero e volgare della nostra vita non ci consente la passione dei capolavori; il nostro spirito, saturo di scienza, d'incredulità, di noia, di vizi e di dolori, non si contempla più che nella prosa, e non chiede alla musica che una distrazione. Quella vera, che canta sul confine della poesia, sarà sempre solitaria ed individuale: sul teatro invece diventa come la folla, si confonde colla pittura e col ballo, rende inintelligibile la parola sopraffacendo la voce del cantore cogli istrumenti dell'orchestra, mentre il pubblico, sedotto dalla verità dei costumi, crede di riconoscere i personaggi ed applaude a se stesso per aver saputo riunire così facilmente la magìa dell'indefinito alla bellezza plastica del verso e alle evocazioni del dramma.

      L'opera condensa oggi tutte le arti nel teatro come il romanzo riassume tutta la letteratura; ma se il romanzo può essere talvolta vero, nessuna sua falsità di fatto o di scuola uguaglierà mai quella di un melodramma. Beethoven non scrisse che il Fidelio, e prima e poi non mise che un numero per titolo alle proprie opere: Wagner invece pretese di rinnovare tutta l'arte moderna col più mostruoso adulterio della poesia colla musica, immolando questa ultima alla tortura di significare resurrezioni storiche e mitiche, dogmi di teologia e di morale, espiazioni di re e di penitenti, eroismi pagani e cristiani, passioni di bruti e di arcangeli, bufere di oceani e catastrofi di paradisi, olocausti di eroi e suicidii di dèi. Evidentemente era troppo. Il suo teatro per vivere avrà, come certi alberi, bisogno di una scapezzatura; ma poichè in lui il musicista riscattava le follie del drammaturgo e le insensatezze del critico, resterà grande fra i più grandi nella memoria della moltitudine per le ineffabili canzoni salienti dall'intrico della sua coreografia.

      Mentre il dramma, così vivo nel romanzo, non ha saputo ancora rioccupare la scena, l'opera invece potrà per il diletto del pubblico restarvi eternamente. Oggi la musica è quasi sempre la poesia di chi non ne ha altra: sono poche le signore che non suonino il pianoforte, credendo così di avere nell'anima qualche cosa d'indicibile da esprimere. In fondo al gusto musicale del pubblico non vi è che un pianoforte, e questo insopportabile strumento è nullameno quanto di più spirituale si è potuto persuadere alla volgarità della gente. Peggio quindi se non vi fosse.

      La musica vera si è fatta più rara.

      Nemmeno le anime capaci di sentirla arrivano spesso ad indovinare quelle capaci di esprimerla. Parrebbe quasi che queste vivano dentro un vapore, ascoltando al di là dei sogni, al disopra di ogni parola, le lunghe sillabe di un'altra rivelazione: ma se intendono e ripetono, non sanno. Qui comincia l'espiazione della loro superiorità. Trovano una bellezza pura dei suoni come già lo scultore trovò quella delle forme, e mettono una spiegazione nell'accento di una vocale come egli pose lo sguardo nell'occhio vuoto e bianco della propria statua. Talvolta invece esprimono cogli acuti e coi bassi le contradizioni della nostra sensibilità come il pittore imprigiona nei colori e nelle ombre la mobilità di tutte le apparenze; raggruppando le note nella frase, come il poeta fa colle parole nel verso, dominano la nostra memoria col fremito di sonorità simile all'abbarbaglio di una visione.

      La poesia declama quanto il suo occhio temerario ha potuto vedere nel mistero, la musica canta tutto ciò che il suo orecchio indiscreto è riuscito a sorprendervi; ma le indiscrezioni dell'una turbano spesso più che le temerità dell'altra.

      E tuttavia la musica non sa quello che dice.

      Le sue frasi più cupe possono diventare allegre solamente allargandone o stringendone il tempo, i suoi impeti più diritti piegarsi a qualunque ritornello, perchè nella musica l'efficacia consolatrice deriva appunto dalla sua facilità a subire qualunque alterazione. I suoi motivi nella nostra memoria, come le ombre nel sole, si fanno gravi o leggieri, mentre le figure di un quadro o le parole di una scena resistono invece nella immutabilità della loro espressione. La musica contenta tutti perchè ognuno la riempie di se stesso: non vi è quindi vera differenza fra quella profana e quella sacra. Tutti gli oratorii sulla morte di Cristo sembrerebbero egualmente belli per la morte di Adone, i canti famosi di certi salmi biblici commetterebbero non meno bene molte strofe del Ramayana o altri versetti del Corano: siamo noi, sono le nostre idee poetiche e filosofiche che fanno il loro contenuto. Certamente uno spirito arido di scienziato come il Lalande non avrebbe nella Creazione di Haydn saputo trovare le idee religiose, che questi credeva di avervi messo, mentre uno spirito panteista come Hugo vi avrebbe udito le voci di tutte le mitologie, e un'anima mistica come Gerson non vi avrebbe sentito che l'estasi di una unica adorazione.


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