Rafaella. Silvio Pellico

Rafaella - Silvio Pellico


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ragghiat,

      Malo trottat,

      E il bussante rovescia talor.

      Intanto che il rozzo inno dilettava o assordava gli orecchi, il drappello signorile con tutto il seguito calò al basso, e con istento avviossi alla chiesa di S. Chiaffredo, fendendo a mala pena la calca. Entrati tutti in chiesa, e locatisi nei banchi, uscì un Sacerdote a celebrar Messa. Il Vangelo dicea la guarigione dell'infermo che non potea gettarsi nell'acqua salutare di Betsaida, quando l'Angelo del Signore scendea ad agitarla. Voltosi allora il Sacerdote agli astanti predicò: «Era forse l'infermo di Betsaida così bruttato d'iniquità, che non meritasse di venire aiutato da alcuno? Anzi è da credere che fosse giusto; giacchè Dio vedendolo abbandonato da tutti gli uomini, mosse egli stesso per consolarlo e guarirlo. Miseri i potenti che non ascoltano la voce di Dio, la quale grida in tutte le umane coscienze: abbi rispetto alla sventura! perchè è il patrimonio di Adamo e de' suoi figli! Ma a noi, o Saluzzesi, toccò un potente che dobbiamo benedire. Il suo maggiore desiderio è d'adoperarsi a vantaggio degli oppressi. Il fulmine caduto sulla onesta casa di Berardo, non gli fe' crollare il capo e dire: È giudizio di Dio! Egli abbassò il capo con dolore e disse: Qual è il giudizio di Dio su di me? Ed intese che il giudizio di Dio era: Soccorri all'afflitto! E gli soccorse; e quelli che erano precipitati senza colpa nella servitù, vennero redenti: i meritevoli d'onore, vennero onorati...» eccetera, eccetera.

      Terminata la Messa, Manfredo confermò dinanzi all'altare le manumissioni de' servi, in questo modo. Li fece passare dalla mano di Villigiso a quella d'altr'uomo libero e dalla mano di questo a quella d'un terzo, poi dalla mano d'un terzo alla propria. Egli condusse allora la graziata famiglia alla porta della chiesa, e disse, accennando le diverse vie della piazza: «Berardo, Giovanna, Eriberto, Rafaella, io vi ho statuiti liberi: ecco le vie che conducono ai quattro venti; avete potestà di andare ovunque v'aggradi». Berardo tornò all'altare dicendo: «La nostra prima via sarà quella che conduce al Padre delle misericordie». Ivi il Marchese, e la Marchesa e il loro figlio parteciparono coi servi liberati al mistico pane, che affratella tutti i credenti.

      Non occorre che descriviamo la rabbia di Villigiso. Straniero ad ogni generosità, non previde che il marchese gli avrebbe chiesto in grazia la vendita de' servi, affine di manometterli. Ora questa richiesta gli era stata fatta in presenza di dame e di cavalieri, al cui parere, egli ricusandola, sarebbe stato villano, inoltre, come vassallo ch'egli era bisognoso di protezione, niuna onorevole proposta del suo signore avrebbe avuto ardire di respingere.

      Splendido convito fu dato nel castello per sì lieto avvenimento: le sale erano addobbate di magnifici arazzi e di serti di fiori. Ma la sala delle mense era decorata specialmente di un fregio carissimo in que' secoli guerrieri, cioè di copiosa collezione d'armi parte acquistate in antiche o recenti vittorie, parte comperate per lusso. Ad ogni desco due sole persone sedeano, e ciascuna di queste coppie era servita da un siniscalco e da un paggetto riccamente vestiti. Il primo desco era quello del principe e della signora; il secondo era quello del loro figlio con una zia, seguivano i rimanenti zii, e zie, poi altri maggiori personaggi, infine Berardo e Giovanna, Eriberto e Rafaella. In altra desinavano parecchi ufficiali del castello; ed ivi traevano a reficiarsi i trovadori e i giocolieri negl'intervalli, in che alternamente ristavano dal trastullare il festino signorile con suoni e canti e mirabili destrezze d'ogni sorta.

      Ai deschi illustri regnava quella spontanea famigliarità che facilmente si genera fra pari, e fra i nobili e signori era allora condita d'eleganza più poetica che non fra i volgari. I poco esperti, come Eriberto e Rafaella, stupivano il bello di tali maniere, e s'abbandonavano, con silenzioso compiacimento, a considerarlo e gustarlo. Anche si maravigliavano di certa indefinibile dissonanza, che appariva ogni volta che i cavalieri e le dame volgeano la cortese parola agli ultimi due deschi. La parola era cortese; parea la medesima cortesia che usavano dame e cavalieri fra loro; eppure non era. Ma Berardo non istupiva gran fatto nè al poetico, nè al dissonante delle due cortesie; le quali egli conoscea da lungo tempo. Mentre con disinvolta riverenza rispondea alle graziose proposte de' maggiori, o con affetto coniugale e paterno rallegrava i tre volti a lui più cari, nascondea il cruccio che prova ogni uomo irreprensibile e veggente ne' cuori umani, che sa di essere odiato e sprezzato ne' giudizi secreti di più d'uno che gli sorride. Nè ignorava come i cosiffatti avessero approffittato de' suoi giorni d'umiliazione per deprimerlo proditoriamente con vili calunnie.

      Finito il pranzo, le mense furono tolte e nella medesima sala, che era la più grande del castello, uno stuolo di gente travestita rappresentò con gesto e cantò un'istoria non meno commovente che amena, nella quale si voleva alludere da lontano alla superata sventura di Berardo; ma volendo meglio salvare ogni decenza, il personaggio che ritraevalo significava un giovane longobardo, fatto prigione da' soldati del glorioso re Carlomagno. Supponevasi che molte menzogne fossero state scagliate da' maligni contro l'infelice; il quale non essendogli dato rintuzzarle, dal fondo del suo carcere cantava, in altre parole, questo lamento.

      Cadde sopra il mio capo una sventura.

      E il suo nome era: Fulmin di Regnante

      E anni di ferro in atra sepoltura.

      Ed io non dissi il flagel tuo pesante

      Più che non merto; e il verme lacerato

      Baciò l'impronta di tue sacre piante.

      Ma un altro ne scagliasti; e fu chiamato

      Stral di calunnia, e allor, gran Dio, perdona,

      Se di te querelossi il dementato.

      Ed esclamai: — Non è Dio che tuona

      Su dalle sfere? E come va, gridai,

      Ch'Ei vede il giusto oppresso, e l'abbandona! —

      Empio era il grido; ma crudele assai

      Più di carcere e morte è la ferita

      Ch'ultima venne, e se mertata, il sai.

      Dato preda a carnefici, ogni aita

      Volsi dell'intelletto, onde immolata

      Non fosse con la mia d'altri la vita:

      E fra tutte una! E a questa era legata

      L'anima mia con quanti dolci nodi

      Amistà far potesse inviölata.

      Se mai speranze, se promesse o frodi

      Corruppero il mio cuore, al porto eterno

      Ch'io mai della salute non approdi!

      Or qual fu quello spirito d'inferno

      Che, a miei dì più incolpati invidiando,

      Sacri all'odio li volle ed allo scherno?

      E per quale incantesimo esecrando

      Color, che già m'amaro, all'empia voce

      Gentilezza e pudor misero in bando,

      E sitibondi alla calunnia atroce

      Posero il labbro, e poichè furono empiuti,

      La riversar con ebbrezza feroce?

      Spietati! e non doveano incerti e muti

      Almeno starsi, o chiedere ove indici

      Fossersi in me di codardia veduti?

      E i giorni miei più lieti e più infelici

      Risposto avriano: — Ei non fu mai codardo! —

      Nè smentirli poteano i miei nemici.

      Or chi lo stigma raderà bugiardo,

      Onde al mondo segnato è il nome mio?

      Chi mi svelle dal cor l'infame dardo?

      Ah! dalle nubi odo risponder: — Io! —

      Ma quando, o sommo giudice? Deh, affretta,

      Sì che a me più non maledica il pio;

      E l'amico fuggito alla vendetta

      Dell'aspro fato, e i figli a lui rapiti

      Sappian


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