Pasquale Paoli; ossia, la rotta di Ponte Nuovo. Francesco Domenico Guerrazzi

Pasquale Paoli; ossia, la rotta di Ponte Nuovo - Francesco Domenico Guerrazzi


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frate: anzichè infastidirmi, penso che mi recherete molto piacere, se m'ingannassi, ve ne accorgerete....

      — Sentendovi russare? In qualunque caso ci guadagnerete un tanto.

      Il signor Boswell non rispose, ma aperta la scatola offerse tabacco al frate, il quale ne prese, e anco ad Altobello il quale ricusò; il signor Giacomo ne tolse anch'egli la sua porzione: ond'è che, tirando su in coro col frate la polvere attinta nel medesimo vaso, si sentivano questi due cristiani più che a mezzo riconciliati.

      — I forestieri — finito il tabacco, disse il frate Bernardino — i forestieri si ficcarono in Corsica dolorosi quanto i chiodi nelle santissime carni di Gesù Cristo: questo vi ho detto e questo vi provo. Raccontano che certi popoli vecchi, dei quali non si trova memoria e non importa trovarla, disertate le terre native, qui ponessero stanza. Se la cosa stia per lo appunto come la contano, io non so dirvi davvero; ma, posto che sia, ciò importa, che la Corsica ha amicizia antica con la disdetta. Difatti e come potreste figurare che codesta gente uscisse di casa? O ci fu cacciata da altri assalitori, e allora chi non ebbe virtù a difendere il proprio, si conosce a prova ingiusto con la roba altrui e ladro: o la inopia del vivere la costrinse ad esulare, e in questo caso ella ci cascò addosso ospite accetta quanto al Senapo le arpie: o per ultimo la tirò l'avarizia, e questo sarebbe stato il peggio, conciossiachè fame satolla si attuti, cupidità umana non dice mai: basta. Ma scendiamo a tempi più prossimi. I Cartaginesi un giorno intimarono a quella gente antica, focea od etrusca che fosse: «Chi ha ballato dia luogo; e a noi aborigeni voi altri ci servirete a questi patti: non seminerete nè pianterete; noi vi somministreremo il vivere dall'Africa.» Di tanto ci ragguaglia Aristotele, ch'era antico e lo poteva sapere: adesso taluno, che non lo può sapere, contraddice e sostiene che ciò non torna in chiave; imperciocchè, andando avanti di questo passo, bisognava che i Cartaginesi spesassero tutti i Côrsi, e questo non pare possibile; e, non potendo provvedersi la vittuaglia, i Côrsi avrieno dovuto impiccarsi ai larici delle loro foreste. Questo si chiama ragionare a vanvera; perchè salta agli occhi come i Cartaginesi, deviando i Côrsi dall'agricoltura, vollero che intendessero unicamente ai lavori delle miniere, a tagliare legna e a raccogliere la pece che stilla copiosa nelle macchie dell'Asco, cose tutte, non che utili, necessarie per popoli dediti alle faccende del mare come i Cartaginesi furono: ma per me m'immagino ci covasse sotto un'altra ragione, e ve la voglio dire.

      I popoli commercianti, fatti presto i quattrini, smettono la pristina asperità (che mi andrebbe di coscienza chiamare virtù) e tuttavia, o cupidi di acquistare di nuovo, o trepidi di difendere il vecchio, abbisognano di armi: ora costumando essi per abito di trafficare ogni cosa, si consigliano potersi provvedere anime e fede non altramente che tele bambagine o pesce salato. Cristoforo Colombo genovese lasciò scritto che a contanti si comprava anche il paradiso; e badate ch'ei fu dei buoni. Ora i Cartaginesi, secondo me, invece di comprare soldati al bisogno, come usavano le repubbliche italiane, pensarono tenersi in vivaio un popolo intero per servirsene alla occorrenza; però, somministrando ai Côrsi paga e panatica, ordinarono che in pace attendessero ad esercitarsi nelle armi, per adoperarle poi a profitto loro in guerra. Per questo modo due popoli antichi ci porgerebbero esempio di istituti contrarii, perchè gli Spartani, destinando gl'iloti alla coltura delle terre, sè conservavano interi alle armi; i Cartaginesi all'opposto, dediti alle industrie mercantili o rustiche, commettevano il carico della guerra, se non tutto, almeno in parte ai popoli deditizii o conquistati. Nè vi paia nuovo che, messe da parte le compagnie di ventura, i Romani, spogliate le virtù prische, sovente ricorressero alle spade dei gladiatori, invocando inviliti a difesa coteste anime che comprarono superbi agli immani sollazzi. E credo ancora che i Cartaginesi a mantenere, come ho detto, quel vivaio di uomini, ci trovassero il proprio interesse; perchè, quantunque l'abbaco non avessero ancora inventato, pur di conto sapevano fare anche a quel tempo. Intanto ai Romani erano allungati i denti anco su le marine: però vennero in Corsica con l'armata, dove uno Scipione romano, contendendo dell'osso con Annone cartaginese, glielo strappò dai denti, rimandandolo concio come un ecce homo in Cartagine. Io ho letto su i libri come, per molto volgere che abbiano fatto di carte, non sieno riusciti a trovare la cagione donde i Romani mossero contro la Corsica; ma e' non sono curiosi costoro? La forza che va limosinando un po' di apparenza dal diritto, è trovato di moderna ipocrisia: a quei tempi la forza procedeva nuda e cruda, e non avrebbe tenuto in casa il diritto nè manco per le spese. Oppressori furono i Romani perchè forti, oppressi noi perchè deboli. Badate di non appuntarmi di contraddizione se, mentre vi dissi dianzi che i Côrsi destinavansi dai Cartaginesi alle armi, adesso ve li do per deboli; perchè la contraddizione si cava di mezzo avvertendo che forza e debolezza sono termini relativi; per la qual cosa i Côrsi, comecchè in sè forti, potevano comparire deboli di petto ai Romani o per numero, o per arti di milizia, o per questo altro ch'io vi vado a dire. Popoli veramente forti sono quelli che da una mano trattano la zappa e dall'altra la spada; il popolo dalla zappa sola casca facile preda di chiunque vada armato a sottometterlo; il popolo con la spada sola si vende e si rivende, e ammazza per vivere. Il popolo poi che ha da difendere la casa, il campo e il camposanto, pare che non muoia mai, perchè di lui non si viene ordinariamente a capo, se prima, passato per ogni estremo, non si senta rifinito di forze; e la natura sembra che abbia voluto in certo modo avvisarcelo quando commise al medesimo metallo l'uno e l'altro ministero; perchè dandogli la zappa di ferro gl'insegnò che con quella aveva da lavorare, e dandogli la spada di ferro lo ammonì che con quella doveva difendere il frutto delle sue fatiche. Affrancati noi dalla tirannide cartaginese, a non patire la romana, avevamo ragione da vendere, ma avemmo torto quando mettemmo innanzi la ragione senz'armi per sostenerla; tuttavia, con l'ingegno supplendo al mancamento di forza, una volta ci capitò di circuire Claudio Glicia, nè gli lasciammo altro scampo che riscattarsi a patto di pace a noi comportabile. L'accordo dispiacque al consolo Varo e al senato, ai quali riuscì ottenere vittoria non ardua di noi ormai assicurati della pace. Solo, per conservare illesa la fede quirita, ci mandarono Glicia in catene perchè lo martoriassimo; noi visto il tapino, dicemmo: «Mancano carnefici a Roma?» Difatti respinto da noi, essi lo ammazzarono in carcere. Le ipocrisie della giustizia odio più della stessa ingiustizia. Non solo, nè in catene, dovevano renderci Glicia i Romani, bensì co' suoi compagni armati ed in mezzo alle strette dove gli avevamo chiusi noi: allora avremmo forse vinto, non però senza strage, chè i Romani erano usi a quei tempi di morire con la carne fra i denti. Oppressi, non vinti, il cuore non si sbigottì; però riparati su le pendici, a mano a mano che le vene ci si riempivano di sangue, scendevamo ad arrisicarcelo al giuoco delle battaglie su le pianure rubate. Ci vinse la seconda volta Marco Pinario pretore ammazzando duemila dei nostri: tolse seco ostaggi, c'impose l'annuo tributo di centomila libbre di cera. Otto anni dopo col cuore medesimo, ma con forze maggiori, tornammo a metterci allo sbaraglio e con fortuna del pari sinistra: chè anco per questa volta Publio Cicereio tagliò in pezzi settemila dei nostri, ai superstiti impose doppio tributo. Bisogna dire che la vittoria non fosse lieta nè anco per lui, all'opposto piena di ansietà; imperciocchè le storie notano ch'ei votasse a Giunone Moneta una cappella se gli dava sgararla. Non vi crediate già che per queste battiture i Côrsi, come gente ricreduta, quietassero; se voi lo credeste, v'ingannereste a partito; di lì a breve ci rividero i Romani più tenaci e più forti; la nuova impresa fu commessa a Papirio Masone, che veramente la condusse a termine glorioso a lui, funesto per noi, ma con tale e tanto sudore, che il senato la giudicò degna del trionfo, il quale Papirio condusse sul monte Albano. Adesso poi i Romani come sicuri posavano il capo su due guanciali, quando di un tratto la sentono ribellata da capo minacciare più feroce di prima. Giovenzio Talma, collega di Tito Sempronio, le mosse contro con molto naviglio ed esercito consolare: al cimento delle armi ruppe i Côrsi cinque volte e sei; ma così apparve nella estimativa dei Romani o così desiderata o così trepidata la vittoria, che il senato decretò rendersi pubbliche grazie alle deità tutelari. Valerio Massimo ha di questo consolo un caso strano, ed è che, sopraggiuntogli il messaggio con l'annunzio del senatusconsulto mentr'egli stava sagrificando sul lido tanta allegrezza lo assalse che, mancatigli ad un tratto gli spiriti, cascò morto a piè dell'altare. Lascio altre ribellioni, altre stragi, le quali, come sono sazievoli a raccontarsi, furono truci a patirsi; unicamente vi chiedo che consideriate questo: anco gli imbelli, innanzi che conoscano di che cosa sappia la vendetta del superbo dominatore, possono avventurare la prima ribellione: solo gli animosi arrisicano la seconda prova e la terza consapevoli delle rovine che perdendo si chiamano addosso: ma contendere sempre senza consolazione di vittoria mai, anzi con la


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