Isabella Orsini, duchessa di Bracciano. Francesco Domenico Guerrazzi

Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - Francesco Domenico Guerrazzi


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ella ragione?

      I Greci ricercando sottilmente la natura di questo nostro cuore, conobbero tali vivere vizi così inerenti alla sostanza umana da non si potere vincere dalle forze unite della volontà, delle leggi, dei costumi, nè dalla religione: però con quello ingegno portentoso, [pg!12] che a loro soli concessero i cieli, resero amabile il vizio, e lo fecero contribuire al bene della repubblica: invece di aspettare quello che non poterono prevenire, gli andarono incontro. A modo di quanto si narra di Mitridate avendo a bere veleno, vi si abituarono per tempo, togliendogli la facoltà di nuocere. Osarono anche di più: fecero gli Dei complici dei misfatti degli uomini; non potendo sollevare questa polvere fino al cielo, abbassarono il cielo fino alla polvere, e il colpevole diventò argomento non di odio, ma di compassione, come quello che aveva ceduto alla onnipotenza del fato, cui Giove non che altri cedeva, e che guidando i volenti, i repugnanti strascina.

      Il quale concetto esteso ad ogni maniera di azioni, sopra modo accoglievano nelle cose di amore. — Anacreonte, al quale cominciano già a incanutire le chiome tante volte coronate della lieta edera e di pampini, se ne sta solo davanti al fuoco in una trista notte d’inverno. Borea imperversa per lo emisfero e pei mari, e un turbine di gragnuola forte percuote la casa del poeta. Egli non ricorda i raggi del sole di primavera diffusi sopra i fiori e sopra i capelli delle donne bellissime, non le molli erbe piegate appena dai piè fugaci delle danzatrici, non l’aure pregne di vita, che gli parevano susurrare nelle orecchie: — amore, amore; — i suoi pensieri versano intorno alla caducità delle nostre sorti quaggiù; vede la vita volgere più veloce della ruota del carro vincitore [pg!13] nei giuochi olimpici, i nostri giorni dileguarsi più ratti di un’ombra sopra la parete: le rose della sua fantasia appassiscono alla considerazione della morte. All’improvviso è battuto alla porta del poeta, ed accompagna il colpo una voce di pianto. — Può non sentire pietà il poeta, se la pietà è una delle più armoniche corde della sua lira celeste? Apre Anacreonte la porta, e comparisce un fanciullo, molle di pioggia, e pel dolore allibito: povero fanciullo! i capelli grommati di diacciuoli gli stanno giù distesi lungo le guance; le labbra ha livide, le membra intirizzite. — “Qual mala ventura, o bel fanciullo, ti sforza a vagare per questa notte consacrata agli Dii dello inferno?” E intanto senza aspettare risposta gli spreme il gelo dai capelli, lo spoglia, lo asciuga, e col calore del fuoco lo ravviva; nè ciò gli bastando, le mani del fanciullo si ripone in seno per iscaldarle soavemente co’ tepidi effluvii del suo sangue. Poichè tornò sopra le labbra il cinabro, e la tremula luce alle pupille, il fanciullo sorridendo dice: “Or vo’ provare se la pioggia mi ha guasto l’arco;” — e lo tende dopo avervi adattata la freccia. Anacreonte improvviso si sente ferito prima di accorgersi che Amore irridendo abbandonava la sua casa. — Vendetta di Apollo fu, se Mirra arse di fiamma incestuosa per Ciniro; vendette di Venere gli amori di Pasifae pel tauro, di Fedra per Ippolito; e volere di Giunone e di Minerva lo immane affetto di Medea per Giasone: poche commisero colpe, o nessuna, di cui non attribuissero [pg!14] la causa a qualche Nume; e così i tragedi, giovandosi della fede universale nel fato, rappresentarono sopra le scene quegli orribili fatti, che diversamente non si sarieno potuti sopportare. E certo vive, piuttosto sembra talvolta vivere in noi qualche cosa che può meglio di noi; nè le nostre credenze, comunque tanto procedano lontane dalle dottrine antiche, vi repugnano affatto. Forse non crediamo noi, che la prima madre venisse tentata dal serpente? E da cotesta ora in poi le orecchie della donna si lasciano andare più facili delle altre alle insinuazioni del tentatore. Forse il tentatore non istà fuori, ma dentro alla femmina, e le siede nel sangue sottile, nel finissimo tessuto delle vene, nei pori della pelle dilicata, nel mobile cervello, e nel cuore mobilissimo: e quando pur fosse così, il tentatore apparirebbe più inevitabile e gagliardo. Ma le donne sole cedono alle persuasioni di un demonio, che ora va tentando con l’odio, ora con la voluttà, ora con lo amore, ora con la copia dei beni, e, per non discorrerle tutte, con quante passioni hanno potenza di muovere il cuore dell’uomo? Oimè! a pochi bastò la costanza contro la lascivia e l’oro, crudelissimi, sopra ogni altro, tiranni dell’anima nostra. Personaggi incliti delle antiche e delle moderne storie, uomini venerati e venerabili, o per quanto durò ai medesimi la vita ebbero a combattere siffatte passioni, o troppo spesso vi giacquero sotto: — e se tra noi fu inalzata alla degnità del sacramento la penitenza, parmi evidentissima [pg!15] prova, che neppure Dio sperò che ci avessimo a mantenere innocenti; no, non lo sperava, dacchè imponeva a Simone Pietro, che perdonasse non solo sette volte, ma bensì settanta volte sette.3 — Povera Isabella, chi è senza peccato ti scagli la prima pietra....

      Aveva ella torto?

      Il primo sorso non inebbria mai, e chi vuole, può deporre la tazza, e dire: — Basta! — Che Amore nato appena, il grande arco crollando, e il capo, sieda re dello spirito, e gridi: — Voglio, e vo’ regnar solo, — lo cantano i poeti immaginando;4 ma la verità non è questa. Amore di momento in momento si compone l’ale di dolci pensieri e di ardenti desiri, e i suoi dardi si fanno duri in proporzione che il cuore, contro il quale si dirigono, diventa molle. Nè Delia accecava perchè contemplò il sole una volta sola; e chi vuole fuggire le Sirene imiti lo esempio di Ulisse, e turi le sue orecchie con la cera. Noi fidiamo troppo, o troppo poco, in noi stessi. Quando la fiamma di uno sguardo, o il fáscino di una voce ci lusingano, e la Provvidenza con senso arcano ci avverte, non tenghiamo conto dell’ammonizione; e diciamo, — “Non anche questo affetto trasmoda; ove trasmodasse, basteremo al riparo:” — quando poi lo sentiamo soverchiare, differiamo il rimedio di giorno in giorno; vinti finalmente, accusiamo il destino, che ci siamo fabbricato con le nostre mani medesime. Così avendo il potere ci manca il volere, e avendo il volere [pg!16] ci manca il potere; noi siamo i nostri reziarj.5 Delle leggi del fato l’uomo può subire quelle che stanno fuori di lui; le altre, che stanno dentro di lui, non hanno forza: vincesi il corpo, l’anima no. E se Dio ci concesse l’anima capace da poterne adoperare le facoltà perfino contro il suo trono immortale, perchè, o come vorremo incolparlo, se combattenti codardi gettammo lo scudo sul principiare della battaglia, o se aborrimmo adoperare la spada che ci fu posta nelle mani? Atomi queruli ed ingiusti, noi vorremmo che il Creatore, rompendo gli ordini eterni delle cose, s’inchinasse ad ogni momento dalla volta dei cieli per riparare ai nostri falli, e per acquietarci le procelle del cuore, che vi andiamo suscitando; egli.... il Creatore, che lascia rotare vorticosi nello infinito i frammenti di mondi lacerati, e distendersi nella orribile sua immensità la tempesta dell’Oceano! Anche la colpa conosce una specie di dignità; osiamo averla. Lucifero bandito dalle sedi celesti non accusava veruno, oppure incolpava sè stesso perchè non era riuscito nello intento; e Lucifero nella sua tetra grandezza ci apparisce tale, che se noi non possiamo desiderargli destini migliori, non ci possiamo astenere da imprecare per male augurato il momento nel quale egli provocava lo sdegno dello Eterno. Ma noi troppo siamo inferiori, sia nel bene sia nel male, alle angeliche nature. Per darci ad intendere che valghiamo qualche cosa, presumiamo farci l’onore di credere che Satana ne abbia tentato. Dove Satana potesse [pg!17] volgere sopra di noi i suoi sguardi di fuoco, non ci tenterebbe ma riderebbe. Può egli darsi Satana peggiore delle triste nostre inclinazioni, e del volere nostro intentissimo a educarle ed a crescerle? — Io non voglio per certo togliere e diminuire alla povera anima d’Isabella la compassione degli uomini e la misericordia di Dio, ma solo persuadere che la misera morte alla quale venne condotta fu pena condegna ai meriti, o piuttosto ai demeriti suoi.

      Mentre Isabella profferiva la strana preghiera che in parte è stata riferita qui sopra, un cavaliere di fiera sembianza, aitante della persona, sporse la testa dal limitare della sala, e stette ad ascoltare le parole della donna; poi con placido passo le si accostava chiamando: — “Isabella!....”

      La donna a quella voce improvvisa rimase percossa: le si fece il volto più bianco, le labbra si mossero senza suono; e la palpebra pesa le cadde, mentre intorno l’occhio si diffuse un lividore cagionato dalla rete delle tenui vene diventate sanguigne, o di colore di piombo. Ella stramazzava per certo, se il cavaliere era meno pronto a sorreggerla. Dopo breve silenzio, il cavaliere riprese a dire così:

      — “Isabella! voi avete qualche cosa sul cuore, che desiderate celarmi: perchè questo, Isabella? Sono io forse così povero amico vostro, che non mi reputiate degno di essere messo a parte dei vostri più riposti segreti? O così mi credete voglioso delle mie contentezze, che non sappia anteporre loro, comecchè [pg!18] con mia angoscia inestimabile, il riposo


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