Isabella Orsini, duchessa di Bracciano. Francesco Domenico Guerrazzi

Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - Francesco Domenico Guerrazzi


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“Madonna..., per amore di Dio, io vi supplico di levarmi la vostra mano dal capo....” [pg!33]

      — “Doveva io non porvela mai....” risponde la duchessa con voce un cotal poco risentita; e la ritira a sè prestamente.

      — “O signora mia, abbiatemi misericordia, chè ella mi ardeva il cervello.”

      — “Io non vedo perchè la mia mano deva farvi ufficio della camicia di Nesso.”

      — “Non lo so neppure io.... ma lo sento.” E queste parole profferiva il fanciullo con voce sì tremula, così pietosa, che la duchessa gli accostò il palmo della destra alla fronte, e come atterrita riprese:

      — “Dio mio, come ti brucia! povero Lelio!... non vorrei che male lo prendesse.... Aimè! ti svieni! E qui non giunge nessuno per soccorrerlo.... Lelio! Lelio! Ahi, che mi muore fra le braccia! Vergine santa, aiutatelo voi!”

      E Lelio fattosi bianco in volto come voto di cera, tutto madido di freddo sudore, chiuse le palpebre, abbandonava il capo sopra il seno di donna Isabella, che lo reggeva con ambedue le braccia; ma di lì in breve rinveniva, e aperte con un gran sospiro le palpebre, poichè riconobbe dov’era, e rammentò il modo e la cagione del suo venir meno, disse mestamente:

      — “Mi era parso morire — oh! perchè non sono io morto davvero?”

      Allora la duchessa si affaccendò a prendere certe sue acque stillate preziosissime, e gliene bagnò [pg!34] le tempie, comunque il giovane per reverenza ripugnasse.

      — “Lascia, lascia,” diceva la duchessa; “io vo’ farti da madre: già per età potrei esserlo....... quasi.... e per amore..... di certo. Bisogna bene ch’io ti ami, perchè tua madre vera è lontana, e non può aiutarti, povero figliuolo. Ma che cosa sono queste smanie? donde viene questo disperarti? Parlami, aprimi il tuo cuore intero: io mi sono accorta del tuo impallidire, del tuo struggerti, e vedo come ti tremi il braccio allorchè me lo porgi per salire a cavallo. — Ami forse? Male accorto, non lo celare a me! Anch’io conobbi gli affanni dello amore e so compatirli. Tu, gentile come sei, non puoi avere posto i tuoi affetti in basso luogo, e se fosse troppo alto, oltre che non vi ha disuguaglianza che amore non uguagli, tu, e per natali incliti, e per censo, e molto più per bontà, mi sembri degno di qualunque più illustre parentado; e se io nulla valgo, ti prometto adoperarmi con tutte le forze per vederti contento.”

      Frattanto Lelio era ridivenuto sano come se non avesse avuto nulla; anzi, deposta ogni tristizia, si mostrava ridente, e le guance gli comparivano floride del colore della giovanezza, primavera della vita.

      — “Oh! sì, giusto,” rispondeva con finta verecondia; “sanno eglino di coteste cose i fanciulli? sono pensieri da diciotto anni? Che cosa è amore? un frutto, un’arme, uno sparviero? Ho inteso sempre dire che crescendo il giovane smagrisce, ma torna [pg!35] poi più rigoglioso di prima. Io, signora mia, mi sento così lieto, così bene disposto, che non mi riesce desiderare di più; e profferendovi con tutte le viscere quella mercè, che io posso maggiore, per la vostra pietà, mi raccomando affinchè vogliate continuarmi la benevolenza di madre che voi mi avete promessa, dandovi fede di gentiluomo, che io dal canto mio mi studierò sempre a non demeritarla giammai.”

      — “Lo farò, Lelio,” soggiunse quasi suo malgrado Isabella: “perchè io abbisogni più che non credi di persone che mi amino davvero.... Io, vedi, Lelio, sono misera, ma misera assai, e nessuno sopra questa terra mi ama; mi amava, e svisceratamente, il padre mio, ma mi ha lasciata. O padre mio, perchè mi hai lasciata così sola.... senza consiglio.... derelitta da tutti....?” — E mentre in siffatto modo favellava, Lelio, posto un ginocchio a terra, e baciandole il lembo estremo della vesta, profferiva queste parole:

      — “Io faccio voto a Dio essere tutto vostro fino alla morte.”

      La duchessa, come quella che per necessità e per uso sapeva padroneggiare i moti dell’animo, accorgendosi essersi lasciata andare più che a lei non convenisse, per distrarre sè e Lelio dai mesti pensieri e dagli eventi.

      — “Orsù,” disse, “Lelio, io non voglio che vada perduto il tesoro della voce che ho in voi discoperto: io intendo che non dobbiate più cantare ad aria, e mi vi offerisco disposta a insegnarvi la musica. Se [pg!36] voi proseguite con la medesima prontezza con la quale avete incominciato, non passerà molto tempo che non troverete pari in corte del serenissimo mio fratello Francesco. Prendiamo la musica della canzone che avete cantato pur dianzi; io vi mostrerò le note, e i luoghi dove conviene alzare, dove abbassare la voce: il signore Giulio Caccini, musico romano, l’ha composta espressamente per me; ella è piana, e soavissima per melodia....”

      — “Se avessi saputo prima, onoranda signora, di cui ella fosse opera, mi sarei guardato bene apprenderla a mente, e molto più cantarla.”

      — “Perchè questo, Lelio? avete per avventura inimicizia col signor Giulio?”

      — “Io non ci ho cambiato mai parola; ma cotesto suo volto mi torna sinistro, mi pare che abbia tutto intero un collegio di Farisei dentro il cuore....”

      — “A me sembra l’opposto: con tutti è amorevole e discreto; dolce parla, e dolce ride; io mi vi confesserei....”

      — “Ed io lo tengo per il più solenne traditore che mai sia stato da Giuda in poi. Notate cotesto suo riso: non sembra suo; io credo che lo abbia accattato da qualche rigattiere; in quelle sue manine vellutate non vedete le zampe del gatto, che ha ritirato gli ugnòli? A tutti raccomanda carità, amore del prossimo, ma per amore suo, perchè non trova conto che la gente cerchi pel minuto, e dopo giusto esame metta i bianchi co’ bianchi e i neri co’ neri.” [pg!37]

      Ed Isabella sorridendo: — “Non giudicate, Lelio, se non volete essere giudicato.”

      — “Queste sono parole sante, che devono intendersi per filo e per segno, avvegnachè bisognerebbe in caso diverso rinnegare la esperienza e la vita. E poi io posso giudicare, perchè non repugno di essere giudicato.”

      E Lelio aveva ragione; e ne fu prova un fatto di sangue. — Le cronache raccontano, come il capitano Francesco degli Antinori dovendo portare a Eleonora di Toledo, moglie di Piero dei Medici, una lettera amatoria del cavaliere Antonio suo fratello, per cagione di cotesto amore confinato a Portoferrajo, aspettato il destro che don Piero uscisse con la sua comitiva, salisse subito in Palazzo-Vecchio, recandosi alle stanze di donna Eleonora, la quale allora abitava quelle dipinte che riescono sopra la Piazza del grano, e subito chiedesse udienza al portiere: ma questi aveva ordine assoluto di non lasciare passare anima al mondo, però che la signora si acconciasse la testa. Il capitano instava trattarsi di cosa importantissima: non badasse a cotesto ordine; gli concedesse passare, o almeno andasse ad avvisarne la signora. Il portiere, nato ed educato in Inspruck, non volle intendere ragione; la signora aveva ordinato che per lo spazio di un’ora non consentisse lo ingresso a persona, e finchè tutti i sessanta minuti non erano scorsi, nessuno doveva passare: e non ci era rimedio. Il capitano prese a passeggiare su e giù [pg!38] per l’anticamera sbuffando; e venutogli presto a fastidio quell’oscillare a modo di pendolo da orologio, vide che anche il mansueto Caccini stava aspettando udienza: mutate seco lui alcune parole di cortesia, e sembrandogli tutto dolcezza, e per di più svisceratissimo della signora Eleonora, cui egli con aria di compunzione e con le lacrime agli occhi chiamava la sua adorata e virtuosa padrona, gli dette incautamente la lettera, raccomandandogli che per quanto amore portava a Dio, guardasse bene di non consegnarla altrui, se non se proprio nelle mani di donna Eleonora. Il musico, appena il capitano ebbe voltato le spalle, si nascose nel vuoto di una finestra dietro la tenda, e aperta la lettera perfidiosamente, conobbe quello di cui correva generale il sospetto, cioè gli amori del cavaliere con la principessa; laonde, nella speranza della buona mancia, ne andò difilato al granduca, ove domandato prima umile perdono dello avere aperta la lettera, scusandosi col dire che a ciò lo aveva condotto lo infinito amore che portava alla dignità del graziosissimo e serenissimo suo signore e padrone, gliela ripose in mano. Il granduca leggendo si mutò in volto; ma, terminata che l’ebbe, con apparente pacatezza la ripiegò a bello agio, e dopo aversela messa nel seno, a voce cupa, com’era il suo costume, così è fama che gli favellasse in brevi parole: — “Musico, qui vedo quattro colpevoli: il cavaliere


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