Più che l'amore: Tragedia moderna. Gabriele D'Annunzio
creature a cercare nel più profondo la lor «vera vita» e a manifestarla.
E per manifestarla ciascuno deve accettare «la meravigliosa necessità della solitudine». La maschera del Titano sospesa alla parete non cessa di biancheggiare pur nell'ombra crescente come un segno di luce inestinguibile. «È l'isola dello spirito» dice Corrado Brando «e non v'è nulla intorno fuorché la tempesta».
La prima apparizione di Maria è accompagnata dalla freschezza e quasi direi dal fremito della primavera acerba. Ella sopraggiunge con le mani piene di violette; ma l'odore dei fiori non le impedisce di sentire nell'aria chiusa l'odore della febbre mortale. Al suo gesto di supplichevole amore, Corrado non volge il capo nel partirsi ebro di lontananza e di perdimento. «Chi lo fermerà?» Ed ecco, scomparsa quella frenetica forza eccitatrice, la vita sembra rallentare il suo bàttito, illanguidirsi, raumiliarsi. Alle imagini della grandezza dolorosa e indòmita succedono le imagini delle bisogne umili e consuete. I vecchi infermi si affacciano alle finestre dell'Ospizio tutte eguali; nel ricordo camminano in fila su la spiaggia anziate i giumenti placidi che vengono dalle carbonaie di Conca. Sorge dal passato e s'indugia per qualche attimo nell'aria primaverile un sentimento di pace e di securità. Le lacrime della giovine donna sgorgano subitanee come la pioggia di marzo ma più silenziose. Entrano i due uomini dediti a offici che sono inutili per la vita: l'uno tenta di far rivivere le pietre morte, l'altro cura i mali incurabili della vecchiezza. E l'uno e l'altro vengono tratti dal «desiderio di riscaldare l'anima a un focolare amico», vengono per respirare «in una illusione di santità familiare». Evocano il dolce agio di ieri, la vecchia fante che porta la lampada verde, il silenzio della strada dietro le tende, gli usignuoli dell'Aventino, il rimorchio sul Tevere, i vaghi romori che approfondiscono la quiete; e quel navalestro Pàtrica che è quasi la larva del Tempo, quel passatore informe su cui sembra che passino le acque del fiume come tutte le cose labili.
O Vita, o Vita,
dono terribile del dio,
come una spada fedele,
come una ruggente face,
come la gorgóna,
come la centàurea veste!
Ecco che di sùbito l'eterna Medusa balza dal pavimento della stanza come da una voragine e agghiaccia l'anima di colui che ha tanto sofferto e tuttavia teme di toccare il fondo della miseria. Il capo irto di serpenti e grondante di nero sangue è là, in mezzo alle apparenze familiari, tenuto sospeso da un pugno invisibile. Per vincere l'orrore, per tener diritte nella schiena le vertebre che si disgiungono, bisogna inventare una virtù e animarla di sé con uno sforzo splendido e veloce che somigli a una resurrezione. Virginio Vesta, Maria Vesta, nati d'un medesimo sangue, suggellati dal medesimo suggello, sono d'improvviso chiamati alla vita eroica. Una voce li chiama, li solleva, li trasfigura e li disgiunge. Nella notte piena si compie il sublime travaglio, incominciato nell'incerto crepuscolo.
Entrambi, guardandosi, sono sopraffatti dall'angoscia. Le fibre dei legami lacerate sembrano gemere in loro. Né l'uno né l'altra hanno ancora conquistata la libertà suprema. Virginio barcolla sotto il colpo, e si lascia sfuggire una parola poco virile. «Non c'è più nulla, allora!» balbetta, quando Maria ha confessato. Gli fa paura il suo deserto.
Ma la sorella è la prima a vincere il tremito; è la prima a respingere l'uso il costume e il limite. Il suo sguardo è già impavido e fisso dinanzi a sé, mentre quello del fratello ancóra s'indugia tra i fantasmi leni del passato. Quando egli riafferra la sua volontà e le dice: «Voglio difenderti», ella ha già l'accento eroico nella sua risposta: «Contro chi, se non temo?» Il distacco è avvenuto. Egli è solo, omai; e non può più proteggere, e non può più consolare. Un tempo le due vite si toccarono, e ne nacque un bene inaudito. Ora i due nati dello stesso sangue ridiventano estranei e soli. Per costruire un santuario bisogna abbatterne un altro. Ma nella donna parla per l'ultima volta l'antica voce tirannica quando, a sostener l'amato, ella afferma la sua certezza: «Resterà col mio amore....»
Perché le sorga in bocca la nuova voce è necessario ch'ella faccia la sua vigilia «nel gelo della morte, con la finestra aperta su l'alba, a piedi scalzi come chi deve passare all'altra riva».
Qui penetriamo nell'imo cuore del drama, la cui vicenda è tragica, la cui essenza è lirica. Qui pienamente l'idea centrale s'illumina, e irraggia del suo splendore la catastrofe. «Da che profondità è salito alla tua bocca questo canto? T'inseguivo nelle tue musiche quale ora mi ti mostri. Ho ascoltato con angoscia tutte le tue melodìe per attendere che quest'una venisse. E ch'io abbia potuto udirla in questo punto, è forse l'ultimo dono del Destino.»
Il ritmo funebre, che accompagna il passo dell'eroe verso la sua fine, s'arresta all'inattesa apparizione della dolce creatura figlia del canto; e anch'egli, l'assassino, per un momento appare trasfigurato, purgato d'ogni macchia, esaltato dal miracolo, come se dalla tenebra la donna reduce gli uscisse incontro d'improvviso con una luce di stella. La parola sofoclèa sembra per lui riempirsi d'un novo senso: «O tenebra, mia luce!»
Un miracolo infatti si compie, insperato, come nell'Alcesti di Euripide. Admeto «l'indomabile» vede sparire dal suo talamo la florida figlia di Pelia. Per serbare la sua propria vita, egli manda la devota verso la prateria d'asfodelo, la sospinge nel regno di giù. Similmente Corrado dà nel suo cuore il commiato crudele alla sua donna, per proposito di scampo; e non volge il capo al gesto supplichevole della mano ancor fresca di fiori. Mi piace di comparare l'anelito di Maria verso l'Alba con il sospiro della Tessala verso lo splendore del Giorno. Ἅλιε καὶ φάος ἁμέρας.... La creatura nuova ha il desiderio di morire perché dalla sua morte venga all'amato «qualche bene ignoto». Ella si distende supina e, oppressa dal peso del suo corpo non più vergine, si offre vittima volontaria: «Ecco, sono distesa per lui e non mi alzerò più». Veracemente dunque, allorché va verso lui che non l'aspetta, ella torna come Alcesti dal regno profondo. Alzando ella il suo velo, Corrado la riconosce reduce dal Buio; non altrimenti che Admeto, alzando Eracle il velo della straniera, riconosce il volto divino della sua sposa a cui ancor siede nella bocca vivente il silenzio dell'Ade. — Θαῦμ’ ἀνέλπιστον τόδε — grida con attonita gioia il re ospitale.
Alcesti si tace. La nuova creatura si abbandona all'ebrezza del canto per celebrare il suo miracolo interiore. «Dov'era la maschera della colpa ho veduto apparire il viso dell'innocenza.... Il mio spirito può abitare la tua tenda. Il mio coraggio può fissare le tue nuove stelle.... Posso, come te, cantare nei supplizi!.» Il rapimento del morituro è impetuoso come un ultimo volo d'aquila verso un sole riacceso. Egli ora sa a quali culmini tendesse lo sforzo della sua vita, quale fosse il segreto della sua ansia. È scomparsa la profezìa eroica che prima gli sembrava di leggere «chiara come in una lapide incisa» nelle corrosioni spaventose dell'immensa duna oceanica. «Tu sei forse la mia ultima terra lontana» dice egli alla donna che lo chiama e lo suscita. I fiumi, i monti, le selve, i deserti, tutte le patrie ignote e agognate sembrano sprofondarsi nel suo spirito e convertirsi in regioni interiori. Altri cammini, altre culture, altri dominii, altre città riconosce egli in sé o intravvede. Trasmutato in spazio mistico il continente periglioso è dentro di lui, cinto dalle onde «senza schiuma e senza strepito» dell'immensa Malinconia. «Tu sai che, se cerco la via ignota, la cerco per svelare me a me stesso.... I più grandi spazii io li percorro nell'invisibile, dentro di me. Toccare la sorgente o la foce segreta d'un fiume non mi vale se quella gioia non illumina nel mio spirito una cima più alta.»
Quando la voce feminile ascende sino alle note del canto, il suo potere riesce a superare il fascino d'ogni altra bellezza e d'ogni altra armonia; poiché, per divenir musicale, è necessario che quella voce s'accordi col ritmo del nostro cuore, lo rinforzi, si perda in noi, diventi la nostra essenza stessa, si trasformi in qualche cosa che prima ignoravamo e che d'improvviso ci appare come un nuovo tesoro di sangue e d'anima. «Sento che le radici della mia vita non sono più in me e che l'infinito è là dove tu ti volgi» dice l'inebriato quando sta per ricevere l'annunzio della maternità. Egli medesimo ascende alle più alte note del canto nel celebrare la vita della sua vita.
Mi tornano nella memoria le parole dell'Antico mentre mi accomiato dalla creatura nuova che porta la costellazione di ferro nell'iride. Ella va a porsi tra Silvia Settala e Mila di Codra,