Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi
i denti al leone! E le armi indisciplinate atterrivano; col partito proposto incominciava ad operarsi lo scevramento fra Popolo e plebe, piaga vergognosa di ordinata città; e amicato il primo, poteva ricorrersi alla forza per disarmare la seconda; le armi composte in mano al Popolo cessavano apparire pericolose; nei regolamenti erami avviso determinare per pena ai falli di disciplina la perdita temporaria o perpetua delle armi; pel quale ordinamento ne veniva di due cose l'una: o il Popolo si disciplinava, e meglio che mai; o non si disciplinava, e perdeva le armi. Nè mi sembrava impossibile riuscire a questo, perchè costringere la universalità a rispettare il comando, massime in tempi torbidi, è arduo, ma agire partitamente sopra i singoli diventa agevole. L'Atto di Accusa, nel § VI, riporta certe espressioni di un Manifesto che nel 25 settembre m'indirizzarono i cittadini: «È incontrastabile, che voi avete diritto alla riconoscenza dei Livornesi, ed è pure incontrastabile che con la vostra influenza ne potete dirigere ogni movimento; compite dunque l'opera, e fate deporre le armi.» Ahimè! In mano dell'Accusa le fronde di alloro diventano cipresso; non dubitate, no, che cotesto elogio ella saprà bene convertire in ronciglio, e ne trarrà la benevola conseguenza, che a senso dei miei stessi concittadini potendo io dirigere a mia posta ogni moto del Popolo, segno è certo che tutto quanto successe di reprensibile fu da me provocato, o da me non impedito; e stringendo in brevi termini, fui complice o impotente, però adesso non per peccato originale, ma per volontà![80] — O miei concittadini, il fato vuole che voi mi abbiate a nuocere e quando mi lodate e quando mi redarguite! E sì che l'Accusa doveva sapere che lo elogio non corrisponde quasi mai alla vera verità; che difficile è sempre potere ciò che si vuole, e che la fortuna del favore popolare
è color d'erba,
Che viene e va, e quei la discolora
Per cui ell'esce della terra acerba.
Ad ogni modo, in quanto alle armi, io aveva provvisto prudentemente e con partito possibile; se questo non avvenne, l'Accusa ne incolpi il Ministero, che ad ogni punto che io cuciva per rammendare i suoi strappi, mi cresceva la mercede di avversione. Necessaria mi pareva la rassegna dei poteri eccezionali, perchè essendo stati provati e riusciti male, ormai bisognava ricorrere alle provvisioni conciliatorie; e così essendo, a che convocare Popoli di Toscana a Pisa come i Sette incontro a Tebe? Perchè, desiderando che il tumulto cessasse, le cause del tumulto mantenevansi? Era, non dirò savio, ma cristiano, educare figli della famiglia medesima ad odiarsi fra loro? Lo so che fu detto, tale non essere il fine dell'adunata, e voglio crederlo: ma intanto appariva così, e le apparenze bastavano perchè effetti pessimi partorissero. — Ora proseguo la storia.
Difficile cosa era che i partiti deliberati non si disfacessero per opera degli agitatori; e la fortuna ne porse loro terribile occasione. Ad un tratto corre voce di agguati tesi ai cittadini per le campagne adiacenti, di vie solcate di polvere, di mine, di feriti, di morti. Ribollono le ire, i persuasi rompono i patti, gli agitatori si scatenano. Accorsi su la ringhiera del Palazzo Municipale, e vidi un mare di capi in tempesta, e la mia voce appunto si udiva come se io l'avessi alzata su la costiera quando vi si rompono i frangenti. Alle ore cinque circa, alcuni barrocci sboccando dalla Via Ferdinanda lenti lenti, traversano diagonalmente la Piazza di Arme piegando all'ospedale; le ruote segnavano traccia sanguinosa sopra il terreno.... portavano undici feriti nella esplosione delle polveri al Calambrone.[81] — Sorse un grido immenso: tradimento! tradimento! E gli agitatori prevalendosi del caso, con feroce consiglio, aggiungevano: anch'egli è traditore.... e mi segnavano a dito, e qui vidi numero grande di archibugi prendere la mira alla ringhiera dove io mi stava in compagnia di Ufficiali e cittadini: chiusi gli occhi, feci delle braccia croce raccomandandomi a Dio. Poco dopo mi avventurai a riguardare, e conobbi come i migliori cittadini con mani e con bastoni stornassero i fucili gridando: non fate.... non fate! — Accanto a me notai un solo Ufficiale rimasto, il maggiore Ghilardi, pallido in faccia; come io mi apparissi non so: veramente fu un tristo quarto d'ora cotesto. Tememmo in quel tempo che gente nemica questi successi apparecchiasse, onde il Popolo rompendo le deliberazioni prese, ella potesse del continuato tumulto raccogliere il mal frutto;[82] forse non era vero, e si ha a credere piuttosto che si prevalesse della occasione. Immensi sforzi usarono i buoni cittadini a placare il nuovo furore: ad ogni patto intendevano le genti prorompere fuori delle porte, e portarsi al Calambrone; si acquietavano appena su la promessa del Maggiore Ghilardi gli avrebbe egli medesimo condotti all'alba del giorno venturo. La mia opera diventava più ardua assai; tuttavolta esposi con le parole che seppi più acconce, le deliberazioni fermate la mattina, e scongiurai il Popolo ad accettarle; ma le migliaia della gente raccolta tentennavano; di tratto in tratto scoppiavano urli di rabbia: allora infervorandomi nel dire, mostrai la empietà della separazione di Livorno dalla Toscana, ricordai la fiorentina origine del Popolo livornese, il mutuo affetto di Firenze con Livorno, il motto fides dato per impresa dalla Signoria fiorentina alla mia patria in mercede della costanza e della fedeltà sue; separai la causa del Principe umanissimo da quella del Ministero; invocai la religione e lo esempio di Cristo per perdonare, e comporsi in fratellevole concordia col Governo e con la rimanente Toscana; conclusi dicendo: «porteremo le proposte vostre al Governo; dov'ei le rigettasse ritorneremo fra voi, e voi farete quello che la vostra coscienza v'ispirerà.»[83] Le mie parole toccarono il cuore degli adunati, e dichiararono contentarsene; di più promisero, sotto parola di onore della città, fino al nostro ritorno avrebbero obbedito alla Commissione governativa, posando da qualunque tumulto. Però cotesta vittoria non mi assicurava; io aveva notato fremere parecchia gente, e temeva non prorompesse; gran parte della notte spesi a blandire cuori esacerbati, a raumiliarli con parole affettuose; alla fine, estenuato, mi ridussi a casa per riposarmi qualche ora. La partenza della Commissione era appuntata alle 4 del mattino.
Appena posato il capo sul guanciale, domandano alcuni Ufficiali, a grande istanza, favellarmi: introdotti nella mia stanza da letto, conosco il Colonnello Costa Reghini, in compagnia di due Tenenti. Il Colonnello, commosso, mi diceva: «per le passate vicende, e per quelle che prevedeva imminenti, dubitare della sua vita: avere contemplata sul campo di battaglia la morte e non averla temuta, nè temerla adesso; solo stringergli il cuore un'angoscia insopportabile pei figli suoi, che paventava vittime, e soprattutto per la madre loro che giacente inferma non si dava pace, e travagliata da convulsioni lo scongiurava a sottrarre i cari capi alle furie del Popolo; invitarmi pertanto in nome della umanità a dargli un foglio di lascia passare alle porte, che certo lo avrebbero rispettato.» Inoltre aggiungeva: «Io vi propongo di mandare con essi loro uno di questi Ufficiali travestito, con lettere pel Generale Ferrari, ammonendolo, che non inoltri milizie verso Livorno, per ovviare qualunque scontro che sarebbe fatale.» Io rispondeva dichiarandomi pronto a sollevare le sue paterne ansietà, e quelle della povera madre; lodai la proposta delle lettere al Generale Ferrari; ma gli faceva osservare che la mia autorità non era tanta quanta egli immaginava; pendere attaccata ad un capello, e averlo veduto poche ore prima; per paura di un male rimoto e incerto ci guardassimo da incappare in male prossimo e sicuro. Intanto, chi dice a lui che sarà conosciuta la mia firma? Ed ancorchè la conoscano, se ravvisano i suoi figliuoli, se il generoso Ufficiale,[84] se frugandolo gli trovassero la lettera addosso, chi sa che cosa mai fantasticherebbero quei cervelli sospettosi? Se mai venissero a dubitare di tradimento.... guai a tutti noi! In mezzo a così fiera concitazione non bastarmi la mente, su quel subito, a considerare qual fosse il partito migliore; mi lasciassero un'ora tranquillo; più riposato, in breve, avrei pensato a dargli risposta. — Il Colonnello profferiva ritirarsi ad aspettare nelle prossime stanze; ma io, per fortuna, insisteva perchè partisse di casa, non mi parendo essere libero col pensiero se qualcheduno aspettava. Dieci minuti dopo la sua partenza, le porte risuonano di colpi: aperte dal servo, invade le stanze una torma di gente invelenita, e circondatomi il letto, me chiama a morte come traditore, con baionette spianate e sciabole brandite. Balzai a sedere sul letto, e domandai risoluto chi fossero — e che volessero. Nega, gridavano, che sono venuti qui poco anzi Ufficiali di linea; che cosa ci sono venuti a fare? — Voi lo sapete. — No, non lo sappiamo. — Come no? Voi lo dovete sapere, perchè dite che io sono traditore; e se temevate che fossi tale, perchè mi avete mandato a chiamare? Voi siete peggio del vento; ora vi fidate troppo, ed ora diffidate di tutto. Volete sapere che cosa sono venuti a fare cotesti Ufficiali da me? Ve lo dirò, ascoltatemi. — E qui a parte a parte narrava loro il colloquio tenuto col Colonnello Reghini.[85] — Si ritirarono confusi domandando perdono. — Da questo apprenda l'Accusa quanto