Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi
di opposizione al Governo. Allora essi risposero essere appunto il Governo quello che mandava per me, perchè bloccato in Palazzo non rinveniva la via di uscirne. «Se così è, soggiunsi, il Governo scriva, o invii qualche ufficiale, e potendo mi renderò alla chiamata.» Infatti, non andò guari che lo Aiutante Baldanzi venne a invitarmi per parte del Governatore di condurmi al Palazzo, ed io andai. Quivi erano il Governatore, Marzucchi assessore, Bernardi colonnello, ed altri moltissimi, i quali, se io non erro, mi parvero più che mediocremente pensosi di cotesta tempesta popolare. Salutato il Governatore, lo richiesi di quello che da me desiderasse, ed egli non senza qualche commozione rispose: «Io nulla; il Popolo è quello che la vuole.» — «Non è così, risposi; io mi mossi, dacchè ebbi il suo invito, e venni per farle piacere; stando diversamente la faccenda, permetta che io mi ritiri.» Allora egli ed altri con modi cordiali mi esposero la condizione in cui si trovavano, riusciti vuoti di effetto i tentativi per allontanare le turbe tumultuanti; e poichè sembrava che in me ponessero fiducia, mi adoperassi a sovvenirli in quel duro frangente. E con tutto il cuore lo feci. Infermo, curante il freddo che m'inacerbisce i nervi, nel mezzo di una notte d'inverno, forte soffiando il rovaio, vado sul terrazzo, e parlo in questa sentenza: «Il Popolo avere ragione delle armi tante volte promesse, e non mai consegnate, ma non avere ragione di trascorrere a vilipendii, se il mare e i venti contrarii tenevano il naviglio vettore lontano dal porto. Dio dominare gli elementi; non gli uomini. Tutto il momento della lite consistere a verificare se gli ordini per comprare fossero stati dati ed eseguiti. Questo affermare il Governo, e di questo non potersi dubitare; nonostante, la Commissione riscontrerebbe, profferendo il Governo ogni schiarimento desiderabile, e darebbe fedele ragguaglio il giorno prossimo. Per ora non rimanere altro che ritirarci nelle nostre case, obliando gli avvenimenti deplorabili della serata.»
Il giorno veniente mi condussi, per tempo, appo il Generale Sproni, al quale mi legavano vincoli di cittadinanza e di benevolenza (e come i primi non si possono, così confido che neanche i secondi siasi voluto sciogliere in questa procella), e con parole aperte gli favellai: la sera innanzi essermi mosso unicamente per aiutarlo a tôrsi dalla difficoltà nella quale versava; la mia salute, le condizioni di famiglia, il desiderio, e il bisogno di vita pacata dissuadermi da prender parte in cotesti ravvolgimenti. Ma il Governatore, a grande istanza, mi pregava a non ritirarmi dalla Commissione: stessi sicuro; del mio buon volere informerebbe il Governo; lo aiutassi a ricomporre in quiete l'agitata città. Sopraggiunse il Venturi assessore, e mi animava con simili conforti a rimanermi con loro; ogni dubbio deponessi dall'animo: «Ed io, egli dicevami, mi pregio di onestà, e tu da molti anni mi conosci; sicchè non vorrei nè potrei indurti a cosa che ti scemasse reputazione o ti arrecasse danno.» Persuaso a non dimettermi, esposi loro i miei pensieri per trovare modo che la città posasse; e prima di tutto si voleva mettere a parte della Commissione certe persone, che, da qualche tempo, procedevansi piuttosto che poco amorevoli, avverse; e così togliere a un punto le gozzaie tra spettabili cittadini, e lo esempio al Popolo della discordia.[66] — Inoltre, ad impedire il rinnuovarsi dei tumulti, appellati dimostrazioni, che precidendo ogni nervo allo Stato facevano il governo impossibile, la Commissione i desiderii del Popolo ascoltasse, e ne riferisse al Governo in forma di supplica o di petizione. Il Popolo poi avrei desiderato che non si presentasse tumultuante alla Commissione, ma col mezzo di deputati eletti a conferire. Sembravami questa medicina acconcia al male, perchè considerava come il Popolo avesse preso il costume di assembrarsi in moltitudine, ed una volta raunato, gli agitatori ci soffiavano dentro, commuovendolo a modo di venti contrarii, per cui ne usciva un domandare discorde, spesso assurdo, sempre violento. Deviare cotesta tribolazione dal Governo per attirarla addosso a noi, non sarebbe stato rimedio plausibile; lo importante stava in sopprimere affatto il subuglio. Insinuando, come io suggeriva, al Popolo di radunarsi nelle chiese per discorrere delle loro faccende, si toglieva di piazza, e questo era primieramente un bene grande; poi l'assembramento diventava minore per la capacità del luogo, lo univoco impulso era remosso, lo equilibrio di varii centri stabilito. Inoltre, la santità della chiesa avrebbe raffrenato la violenza degli atti e le disoneste parole. Molte esigenze popolari sottoposte a discussione sarebbero comparse assurde. Uomini probi in adunanza di simile sorta, avrebbero adoperati a fine lodevole l'autorità del nome, il credito della condizione, la efficacia delle parole. Gl'impronti agitatori non si sarebbero mostrati, conciossiachè sia facile a comprendersi quanta differenza corra tra aizzare il Popolo passionato e inesperto durante la notte, e sostenere una opinione alla luce del giorno con bontà di discorso. — Quando si possa chiamare la gente in parte dove sia costretta a vergognarsi delle sue enormezze, ella, se eccettui pochi perdutissimi, tace. La Commissione ancora avrebbe avuto a trattare con uomini dabbene, padri di famiglia, conduttori di negozii, per indole e per interesse amanti di riposato vivere; nè intemperanze dalla parte loro erano da temersi; in ogni caso agevole adoperare con essi gli argomenti medesimi ch'eglino avrebbero impiegato con gli altri. Insomma, intendeva convertire il tumulto in sistema regolare di petizione. Le carte perquisite fecero fede di cotesto mio concetto; il quale forse sarà stato intempestivo, ma non disacconcio; ed anzi, neppure intempestivo, dove si avverta, che contro il Popolo non si voleva, nè si sarebbe potuto, senza pericolo, ricorrere alla forza.[67] Dei due partiti, reprimere o concedere, bisogna pure valerci di uno nelle perturbazioni politiche; peggio di tutto è la inerzia, che, come non ti sottrae ai danni di chi combatte, neanche ti acquista la benignità solita praticarsi verso chi cede a tempo. In ogni caso ell'erano proposte le quali potevano accettarsi o ricusarsi, non già leggi che per me si volessero imporre. All'Autorità locale parve avessero a sospendersi, e rimasero senza effetto. — A me non giova suscitare adesso tristi memorie, nè, adoperando io quello che in altrui massimamente detesto, staccherò serpi dal capo della Discordia, per gittarli a turbare la comunanza solenne della sventura. A me basti dire, che fui vilmente calunniato, che (stupendo a narrarsi!) Livorno intero mi suscitarono contro con l'accusa di macchinati incendii, di rapine e di stragi! Ben quattromila cittadini armati vennero ad arrestare e a incatenare la bestia feroce. Predicazioni acerbissime, stampe infami, governative insanie cospirarono ad alienarmi in un punto tutta la mia patria che ho amato sempre come la pupilla degli occhi, per cui mi piacque la fama, offerendo a lei, in tributo filiale, quel poco di onore che mi veniva procurando con i miei scritti! Allora, come adesso, perfide parole mi filtravano dall'alto del carcere sopra il corpo e sull'anima come stille di pece infiammata. Allora, come adesso, smarrito ogni senso di morale, di religione e di pudore, uomini (che se ne pentiranno amaramente un giorno) si fecero cagne studiose e conte per latrare e per mordere. E adesso, come allora, la mia maladizione saprà perdonarvi.
Lo egregio uomo Scipione Bargagli, venuto Governatore a Livorno, presto si accôrse della oscena persecuzione: i miei concittadini, pieni d'inestimabile rammarico, per essersi lasciati così stupidamente ingarbugliare, domandavano ammenda della commessa ingiustizia. Alla Catilinaria era mancato il Catilina; nè Marco Tullio aveva potuto ripetere il verso famoso:
O fortunata nata, me consule, Roma!
I Giornali erano rientrati nell'otre di Ulisse. I Municipii, che simili ai montoni di Panurgo furono uditi uno dopo l'altro belare Indirizzi di congratulazioni, per la patria liberata dagli Unni, tacevano; solo si dibatteva il Partito a me avverso, e agitato da molte passioni, cresceva di violenza. Questo Partito, che aveva proceduto ardentissimo contro la Commissione, la quale si era proposta di secondare il Governo, col pretesto che creava uno Stato dentro lo Stato, adesso sorgeva tra il Governo e me; e al Governo diceva: «Guai se egli si attentasse a farmi tornare!» Da me ardiva pretendere un atto di contrizione delle colpe commesse, poi si contentava di un atto di fede, che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni tempo la mia futura condotta; altrimenti minacciava mi avrebbe fatto durare fino a dieci anni in carcere. Artificiosa era cotesta improntitudine del pari che temeraria; però che il Partito intendesse strapparmi uno scritto qualunque, che poi, interpretato con la solita carità, gli servisse a dimostrare che non senza motivo si era mosso ai miei danni. Intanto il Governo, liberati i compagni della mia prigionia, riteneva me, che avevo dichiarato non volere uscire, dove alla mia fama non si desse convenevole riparazione; e il Principe nel 22 marzo 1848 dichiarava, che gli atti a me obiettati si riducevano ad una preordinazione per ispingere possibilmente verso una meta, cui le sopravvenute mutazioni politiche in Italia hanno a noi permesso di pervenire senza pericolo del nostro Popolo; aggiungendo che la loro illegalità era sparita dopo che lo Statuto ne aveva assicurato il conseguimento con letizia comune del Governo e dei governati. Onoratissime