Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi

Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi


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      Figliuolo della morte e del peccato;

      non le basta, che pesi su lui la condanna di Caino, però che alla fin fine Dio vietò che uccidessero il fratricida: adesso ella mi mette a pari del lupo, e sembra avere desiderato che dessero la taglia dei dieci scudi a chi portava la testa mozza di questo Ministero licantropo. Il torto non è di coloro che mi correvano addosso: egli è evidente; il torto era tutto mio, per non essermi rassegnato di buona grazia a farmi lacerare. Cecità di partiti! Vogliono ricostruire l'Autorità, e commendano coloro che l'Autorità distruggevano! Nè vale opporre: ma voi ci eravate esosi; — non importa; — se consentanei a voi stessi, noi eravamo Autorità, e tanto bastava perchè ci aveste dovuto rispettare, e difendere. Vedete David: egli odiava Saul; grande era il comodo che risentiva dalla sua morte; e nonostante, in venerazione dell'Autorità, ordina sia tolto di vita lo Amalechita che mise la mano su l'unto del Signore. Certo capitano Côrso, che io ho conosciuto, dopo essersi arricchito seguendo le fortune della prima rivoluzione di Francia, professavasi adesso sviscerato dell'Autorità. Nel 1830 i suoi figli travagliandosi nei nuovi sconvolgimenti, toccarono da lui un fiero rabbuffo: e siccome essi per iscusarsi gli rammentavano le sue geste operate nella rivoluzione, egli rispose: Tacete! cotesta rivoluzione era giusta perchè c'era io! — Così l'Accusa a me: Tacete! cotesta non era Autorità perchè ci eravate voi. — Le stesse premesse di passione conducono alle medesime conseguenze di errore. Un Giornale onesto, non parziale del Ministero, amico dello Statuto, ecco come qualificava allora a viso aperto i libelli che all'Accusa basta il cuore adesso salutare col nome di generosi oppositori al Ministero.

      «Quello che oggi è accaduto in Firenze potrebbe però dalla sola malevolenza attribuirsi al Popolo, o anche ad un Partito. Un attruppamento di forse 20 persone si è recato alla tipografia Passigli, si è impadronito delle forme del giornale la Vespa ec... Noi non troviamo parole sufficienti per flagellare certi VITUPEROSI giornali di tutti i colori, che mercano oro bruttando di fango quanti sono loro avversarii, e che alla discussione calorosa, ma urbana e ragionata, sostituiscono la CONTUMELIA VILLANA E LA CALUNNIA. Questi DEPRAVATORI della Morale pubblica, questi BASTARDI PARASITI della libertà della stampa, dovrebbero trovare degna punizione nel disprezzo e nell'abbandono delle oneste persone, se molti cui piace ridere delle ferite fatte altrui, tenerissimi poi della propria pelle, non gettassero, a nutrire tanta bruttura, un soldo per comprare un minuto di stupido passatempo, per non dir peggio. E sì, per Dio! che son tempi questi da ridere e da scherzare leggiadramente, e da cercare sollazzo frugando nel santuario delle pareti domestiche, o alzando il velo che cuopre i segreti, che dovrebbero essere inviolabili, della vita privata! Un bel Popolo degno di libertà veramente saremmo noi se dovessimo essere giudicati dalle sozzure che si vanno stampando e affiggendo pei canti della città! La cosa non va per questo modo, la Dio mercè; ma neppure dev'essere lecito in un Popolo ordinato civilmente, che ha leggi e Governo, ai primi venuti d'andare a farsi di proprio moto vendicatori della Morale pubblica.» — (Nazionale, 3 gen. 1849.)

      I vituperosi, i villani, i calunniatori, i sozzi depravatori, i contennendi da quante sono oneste persone nel 1849, nel 1851 diventano generosi oppositori per l'Accusa! In verità, siffatte considerazioni talora mi spingono in volto il rosso della vergogna di essere nato uomo, e nell'anima uno sgomento, che poco più è morte. — O Patria mia!

      Fra le quotidiane calunnie, la Vespa diffuse quella, che io avessi ordinato il Palazzo del Marchese Ridolfi si manomettesse, e, fedele poi al mio programma, gli avessi fatto pagare il guasto!!

      Per chiunque intende gentilezza che sia, il mio ufficio m'imponeva tutelare tutti, particolarmente poi il signor Cosimo Ridolfi, che mi era proceduto infesto senza ragione. Si rimproverava un fatto falso, e mi pareva che costituisse vera calunnia. Chiamai il Magistrato, e gli dissi adoperasse per noi la difesa che avrebbe usata a favore di ogni altro cittadino: nella repressione dei delitti rammentasse che il Governo non proteggeva la Magistratura, ma all'opposto la Magistratura il Governo. Esaminasse, e vedesse quello che in sua coscienza era da farsi.[44] Il Magistrato esaminò e referì: non correre tempi propizii per questa sorta accuse; la difesa avrebbe saputo togliere di mezzo ogni ombra d'imputabilità: non persuadergli la coscienza d'instituire processo. Davanti alla coscienza del Magistrato tacqui: però con profondo sconforto notai, che il tempo governava cose che non avrebbero dovuto governare ragioni di tempo. A Lucca parimente non omisi provocare l'azione dei Magistrati contro i delitti della stampa, ma il Prefetto avvisava: «Il Pubblico Ministero non crede incriminabili gli articoli della Riforma, e così l'Autorità Governativa non può agire contro essa!» — Heu Hector quantum mutatus ab illo! A reprimere le sfrenatezze della stampa, occorrevano due mezzi legali, e vennero praticati: i Tribunali; e assolverono, trovando i tempi poco favorevoli a simili accuse: il richiamo dei Direttori dei Giornali; e dissero avere vinta la mano dagli scrittori. Io, e il Processo lo attesta, esortai qualche Direttore a smettere la veemente polemica, offerendomi pronto a fargli toccare con mano come il suo Giornale proseguisse uno scopo ad ottenersi impossibile. Il Prefetto di Firenze ai Direttori di Giornali di varia opinione raccomandava reciproca cortesia e temperanza.[45] Ad ogni evento vi erano leggi repressive; eranvi Magistrati a posta per invigilare; nè l'Autorità governativa può, nè deve, senza sconvolgere ogni diritto ordine di reggimento, mescersi da per tutto: in siffatte faccende il Governo attende soccorso dalla Magistratura, non glielo partecipa. Avvertasi per ultimo se complice o impotente repressore di violenze fossi io! — Arrestati alcuni prevenuti di guasti alle campagne dei signori Bartolomei, così ordinava col Dispaccio telegrafico del 16 novembre 1848: «Bene, benissimo: adesso procedura immediata: si sospenda ogni altro negozio al Tribunale: pena la indignazione sovrana se i Magistrati, nel più breve tempo possibile, non terminano questo negozio: impieghino giorno e notte; si dia pubblicità alla discussione: prenda parola il Procuratore Regio; energia, o fra un mese la Toscana diventa un mucchio di cenere.» Grave fatto fu quello dello Arcivescovado; ma simili successi, come inopinati e improvvisi, male possonsi prevenire. Bene si possono, anzi si devono castigare. È colpa mia, se gli Ufficiali non sapevano, o aborrivano dal proprio dovere? Le inquisizioni furono ordinate; perchè non proseguite? Il Governo ha da fare tutto? Può provvedere a tutto? Di tutte le paure, di tutte l'esitanze, di tutte le negligenze ha da essere becco emissario il mio Ministero? — Il Monitore del 23 gennaio 1849 così manifestava l'animo suo vituperando il fatto: «Pochi facinorosi e un branco di ragazzi tentarono violare la santità dello asilo (dello Arcivescovo), con generale reprobazione di tutti i buoni Fiorentini, dei quali non pochi si adoperarono onde desistessero dallo spingere più oltre le violenze. Il Governo non può nè deve tollerare qualunque trascorso che tenda a turbare la pubblica tranquillità o infrangere l'autorità delle leggi. Sono già state prese le misure opportune, e la Giustizia sta in traccia dei colpevoli, che saranno puniti con tutto il rigore.»[46] L'Accusa poteva rammentarsi che mercè le mie premurose istanze l'Arcivescovo fu richiamato in Firenze, che egli a me si affidò, e che io, con sommo studio, correndo pericolo grande, attesa la malvagità dei tempi, lo assicurai nello esercizio liberissimo delle sue funzioni ecclesiastiche. La opposizione del Roberti a presentarsi a Firenze, era ella cosa da rammentarsi nemmeno? Dat veniam corvis, vexat censura columbas! E nonostante, col Dispaccio telegrafico del 13 novembre 1848, ore 6, fu mandato: «Se Roberti (Giorgio) vuole dimettersi, accettisi la dimissione.» E nel 18 detto: «Roberti obbedisca e venga a Firenze; se disobbedisce, si cassi dai ruoli.» Roberti obbedì. Le violenze contro i signori Bartolomei ed Henderson furono con alacre operosità represse. «Sono state prese le opportune disposizioni perchè non si rinnuovino violenze a carico dei proprietarii della sega a vapore.» (Dispaccio telegrafico dell'8 novembre.) — «Ma avvertasi, che nulla accadde di violento; vi furono solo minaccie.» (Dispaccio telegrafico Isolani del 7 novembre.) — Rispettivamente ai sigg. Bartolomei, ecco come io ordinava a ore 4, min. 55, del giorno 11 novembre col telegrafo: «Si proteggano ancora i Bartolomei. Appunto perchè mi hanno fatto male, debbono essere protetti. Se fosse diversamente, ridonderebbe in infamia per noi.» — Alle ore 6, min. 43, del medesimo giorno, mi rispondeva il telegrafo: «La dimostrazione contro i Bartolomei era incominciata col suono di un tamburo; l'ottimo Petracchi l'ha dissipata.» — Perchè mi appone l'Accusa disordini che furono prevenuti? Nel giorno 13 novembre, a ore 6 pom., per via telegrafica comando al Governatore di Livorno: «Si proceda subito allo arresto dei violatori delle proprietà Bartolomei;


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