Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi

Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi


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parte, che gl'incauti si affaccendavano ad abbattere il dicco estremo, che sosteneva la piena minacciante di sommergerli tutti. Queste cose sa il Principe, che deplorandone gl'imprudenti conati interpose l'autorità sua, perchè cessassero e forse glielo promisero; io però ebbi a provare che non lo attennero troppo.

      In questa parte concludendo, è lecito dire, che i Giudici, e l'Accusa non affermarono il vero, anzi esposero il falso, quando narrarono l'agitazione essersi manifestata sul declinare del 1848 soltanto. Nè ciò si creda che entrambi facessero senza consiglio, imperciocchè lo studio loro intenda, come ho avvertito, a mostrare che una forza rivoluzionaria fosse eccitata da me, crescesse, crescesse irresistibile fino all'8 febbraio 1849; nell'8 febbraio poi cessasse ad un tratto per ripigliare più tardi: così i fatti altrui fino all'8 febbraio s'imputano a me, perchè da me costretti; i fatti posteriori all'8 febbraio s'imputano parimente a me, perchè in me spontanei. A senso dell'Accusa, le forze rivoluzionarie stavano in potestà mia, come le cannelle dell'acqua fredda e dell'acqua calda quando entro nel bagno. Io però fui complice, o impotente per vizio di origine; nato in peccato mortale, non basta a salvarmi agli occhi dei miei Accusatori il battesimo della scelta sovrana; però importa osservare come i Ministeri precedenti, usciti al mondo immacolati, o immersi del bel Giordano nelle chiare acque, non riuscissero meglio a vincere la forza rivoluzionaria fino dai primordii. Eglino stessi lo confessarono, e ne addussero cause plausibili. La confessione, lo avvertano i miei Accusatori, è cosa che merita reverenza grandissima, perchè innalzata anch'essa alla santità di sacramento. Ora considerino, di grazia, se in tempi più grossi mi venisse fatto di adoperarmi con qualche vantaggio in benefizio del Paese.

      Quando mi giunse a notizia, come l'autore del Decreto della decadenza del Principe, scritto e proclamato sopra la Piazza Granducale il 30 luglio 1848 sotto il Ministero Ridolfi, continuasse la sua dimora in Firenze, irremissibilmente lo esiliai.[29] Preti, seminatori di scandali, pervertenti lo spirito dei campagnuoli, insinuanti che il Granduca costretto aveva consentito allo Statuto, non già di cuore e spontaneo, chiamai, ammonii, e corressi.[30] Torres, espugnatore delle Fortezze livornesi sotto il Ministero Capponi, ardito uomo, fu da me parimente bandito, e ritornato con manifesto spreto dell'Autorità, ordinai lo arrestassero e lo conducessero ai confini.[31] Alle censure acerbissime della stampa, per questo fatto, risposi: «Renda conto il Torres della sua passata condotta a Livorno, giustifichi il suo ritorno a Firenze, allora apparirà se la misura presa a suo riguardo fu arbitraria e vessatoria, o piuttosto opportuna e giusta.»[32]

      E qui giovi notare, di scancio, contro alla benevola insinuazione gittata là dal Decreto in mezzo a parentesi (Guerrazzi creduto autore principale dei moti livornesi), che se io fossi stato tale, non lo avrebbe ignorato il Torres; e alla mia invereconda provocazione non avrebbe egli risposto col verso di Clitennestra:

      «Chi mi vi ha spinto or mi rimorde il fallo?»

      Livorno ridussi in potere del Principe, quantunque, come attestava il Presidente Capponi, stesse in procinto di eleggere il governo provvisorio.[33] A moderare il passo continuo di gente nemica naturalmente di pace, il chiarissimo Mariano D'Ayala ed io osammo proporre al Principe il Decreto del 27 novembre 1848, dove si ordinava, che tutti quelli i quali presentandosi alle frontiere non si arruolassero soldati fossero respinti. Preposto a scrivere il Rapporto del Decreto, adoperai parole audaci,[34] che m'inimicarono coteste turbe, dove a poco bene s'incontrava mescolato parecchio male: però che i Popoli creduli reputassero profeti tutti quelli che paltoneggiando pel mondo si facevano le spese a nome della patria; e guai a colui che avesse ardito con parole o con fatti torcere pure un capello di quelle teste reputate sante. E solo osai ancora di più: gl'ingenerosi insulti (tollerati dai precedenti Ministri) contro i nemici repressi; tanto ebbi a schifo qualunque cosa, che magnanima veramente non fosse, tanto studiai di sollevare il cuore del Popolo ad alti concetti. Le parole che io dissi sul terminare del 1848, quando gli Austriaci erano lontani, posso ripetere adesso che sono in casa: «Non così (scriveva al Prefetto di Firenze), non così si educa un Popolo, nè se ne ritempra il carattere. Nè m'incresce meno considerare come si espongano al pubblico dileggio i nostri nemici. I nemici vanno vinti, Signor Prefetto, e non oltraggiati, imperciocchè lo insulto, prima della vittoria, sia stolta jattanza; dopo, bassezza codarda. E un altro male fanno eziandio simili scede, che inducendo il Popolo in falso concetto sopra la potenza del nemico, dorme sicuro poterlo vincere agevolmente, mentre avrebbe mestieri di supremi conati per superarlo.»[35] Ah! non era io quegli, che lusingando assicurava il Popolo potersi vincere il nemico co' bastoni e co' sassi..... non io..... non io promisi andargli incontro co' figli; ma quando strinse il bisogno, mandai semplice soldato quell'unico, che mi tiene luogo di figlio!

      Ma l'Accusa, dissimulando la condizione dello Stato, e come se incominciasse sotto il mio Ministero l'agitazione in Toscana, va a raccogliere i fatti successi per gittarmeli in faccia; essa rammenta: 1º Lo assembramento in Livorno nel 29 e 30 ottobre 1848 per bruciare la Patria, e l'uscita delle milizie a dimesticarsi col Popolo. 2º La occupazione violenta delle Fortezze di Portoferraio. 3º Le minacce contro i proprietarii della sega a vapore a Livorno. 4º Le violenze alla tenuta di Limone dei fratelli Bartolomei. 5º La esultanza in Livorno per lo assassinio del Conte Rossi, assistente il Governatore. 6º La opposizione al richiamo in Firenze del Capitano Roberti. 7º Le violenze elettorali, quantunque l'Autorità avesse avuto il tempo e i mezzi per prevenirle. 8º Le violenze contro il giornale La Vespa, onde ridurlo a tacersi, comecchè avesse avuto coraggio di farsi opponente al Ministero. 9º I disordini in piazza, e al Palazzo dell'Arcivescovo, per cui il venerando Prelato ebbe a cercare sicurezza fuori di Firenze. 10º L'esorbitanze della stampa ec. E fatta questa raccolta conclude, che il Ministero restringeva i provvedimenti ad apparenze di preparativi, a frasi di disapprovazione, al rinvio degli avvenimenti più scandalosi all'ordinarie vie di giustizia![36]

      Davvero, per poco non mi cade l'animo sconfortato, però che i fatti che in parte io stesso allegava in testimonio di riordinato reggimento, mi si ritorcono contro, o come eccitati da me, o come da me reo di peccato originale non potuti reprimere. Esaminiamo in qual modo io adoperassi contro i fatti dall'Accusa allegati, avuto sempre riguardo alle condizioni del paese e dei tempi. — Pervenuta al Ministero la notizia dell'arsione in Livorno del Nº 120 della Patria, e del come non volesse il Popolo consentire alla consegna di cotesto Giornale, ecco quello che feci stampare nel N. 270 della Gazzetta di Firenze: «Il Governo, fermo nel suo intendimento di mantenere il suo Programma, comunicò al Direttore della Posta di Livorno, per mezzo del Ministro dello Interno, le istruzioni che noi riproduciamo. — Illº. Sig. Il sottoscritto Ministro dello Interno, in unione dei suoi Colleghi, intende e vuole che sia pubblicato secondo l'ordinario il Giornale detto La Patria. Libertà di parole a tutti. Questo principio professerebbe sempre lo attuale Ministero in altrui; molto più lo deve, trattandosi di sè. Dove i miei concittadini nel proponimento loro persistessero, gli avverta che scapiterebbero assai nell'onorato concetto che il mondo si è formato di loro, e che a tutti noi apporterebbero grandissimo cordoglio. Il proverbio antico diceva, che nè anche Giove piace a tutti; come possiamo pretendere piacere a tutti noi, che per certo Giove non siamo

      Ancora nel giorno 29 ottobre 1848, a ore 9, mi mandavano il seguente Dispaccio telegrafico: «Questa sera a ore 11 fu bruciato lo infame e tristo Giornale La Patria. Il medesimo urtava il nuovo Ministero, e quindi la intera popolazione livornese. Fu condannato ad essere bruciato in mezzo di Piazza; poscia il Popolo ha proibito al Direttore della Posta, pena la morte, di farlo introdurre in questa valorosa città di Livorno. A scanso d'inconvenienze rimetto a lei giudicare chi ha torto o ragione.» Ed io subito, dopo men di due ore, rispondeva per la medesima via al Consigliere Isolani: «Male, male. La Patria è ostile a noi. Motivo di più per rispettarla. Se la pubblica opinione ci sostiene, perchè mai violenze? Scriva la Patria; quanto più scrive, più mostra la bassa invidia a cui manca perfino la decenza. Questo dispaccio si parte dal Guerrazzi, e non dal ministro Guerrazzi.»

      Così io raccomandava un Giornale piuttosto mio persecutore che avverso; Giornale, che non aveva aborrito di rovesciare sopra di me la calunnia, quando oppresso e imprigionato non poteva rispondere, ed ogni sua parola pesava nella bilancia della Giustizia a mio danno; Giornale, che più di ogni altro si affaticò a spargere le triste voci, che adesso raccoglie diligentemente


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