Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini

Al fronte (maggio-ottobre 1915) - Luigi Barzini


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pareva la voce d'un assalto.

      I soldati sono accorsi da ogni parte, è stata una confusione da alveare negli attendamenti pavesati da biancherie che asciugano. «Viva il Re!» — gridavano anche i soldati lontani, quelli che non vedevano niente, e che correvano a perdifiato attraverso i campi. Arrivando sulla strada, ansimanti, felici, i soldati si pigiavano in rango, rigidamente, duri alle spinte della massa che sopraggiungeva dopo, e che faceva da popolo dietro il cordone della prima fila.

      Sceso dall'automobile, il Re passa avanti a quella siepe d'entusiasmo, e saluta, la mano al berretto, un lieve sorriso sulle labbra, facendo scorrere sui volti quel suo sguardo profondo e osservatore che lascia in ognuno la sensazione di esser visto e notato. Lo sguardo del Re è penetrante e valutatore.

      Il Sovrano si ferma: «Bravo! — esclama rivolto ad un soldato. — Dove hai guadagnato le tue medaglie?». L'interpellato ha il petto fregiato da due nastri azzurri del valor militare e del nastro della campagna libica. In un combattimento a Misurata strappò al nemico il corpo del suo capitano caduto, e in Italia, in una camerata di caserma, disarmò da solo un compagno impazzito che faceva fuoco su chiunque si avvicinasse a lui. È un fiero caporale calabrese, biondo di baffi e bruno di carne, un discendente di guerrieri normanni.

      «Eccoti da fumare!» gli dice il Re porgendogli dei sigari dopo avere ascoltato il suo conciso e imbarazzato racconto dialettale. Il soldato li prende con profonda reverenza, come una cosa sacra, e quando il Re è lontano la sua felicità esplode. Levando in alto il dono, egli danza gridando: «'U zigarru d'u Re! 'U zigarru d'u Re!».

      Qualche ora dopo, mentre il Sovrano ridiscende dal colle, lungo un pittoresco sentiero tutto fresco di ombre verdi, tre fanciulle, tre contadinelle del paese, dai piedi nudi negli zoccoletti, si fanno avanti, timide, confuse, le mani piene di fiori colti allora nell'orto, e li offrono inchinandosi con una grazia tutta campestre: «Maestà.... — mormora la più ardita divenendo rossa come le sue rose. — .... I x'è fiori d'Italia!».

      Quando il Re è tornato il giorno dopo, si è fermato allo sbocco del sentiero, dove aveva incontrato le ragazze, e ha fatto chiedere di loro. Una sola era là; essa è corsa a chiamare le amiche; un minuto dopo arrivavano tutte e tre, trafelate e felici, e il Re, sorridendo con una benevolenza paterna, ha porto ad ognuna una scatola di dolci, adorna degli emblemi reali. Poi ha continuato la sua strada, seguìto dal suo Stato Maggiore che riempiva l'angusto sentiero di un grigiore d'uniformi e di un tintinnìo di sciabole.

      Ma Vittorio Emanuele non può stare lungo tempo lontano dall'azione. Sente il bisogno di esservi dentro. Quando ha avuto una visione generale della situazione, sceglie il suo posto e parte. Ogni giorno è in un punto ove si combatte. Dov'è andato oggi? Lasciata l'altura, è risalito nella sua automobile, e qualche minuto dopo la vettura reale filava laggiù, sulle strade battute dagli shrapnells austriaci, attraverso villaggi che il bombardamento sforacchia e demolisce, diretta a qualche interessante settore del fronte.

      Finchè si è potuta vedere, finchè la sua scìa polverosa ha indicato il suo cammino sulla zona del fuoco, centinaia di sguardi l'hanno seguìta in un silenzio commosso, pieno di una lieve angoscia, e mai il motto solenne della lealtà britannica ha avuto una più intensa significazione: Dio salvi il Re!

      Alla notte la tempesta di artiglierie, durata due giorni, si è calmata. La lotta si è sopita. Un temporale scendeva dal nord, con un tremolìo di lampi, e pareva che il cielo a sua volta fosse in battaglia. Delle vivide luci azzurre di segnale brillavano di tanto in tanto nel buio, sulle posizioni austriache. In fondo alla pianura oscura, morta, invisibile, l'incendio di Lucinico metteva un punteggiare di bragie.

      I risultati di questi due giorni di combattimenti? Plava. Si lottava a Gorizia per passare altrove. Bisognava impegnare tutto il fronte, per forzare un punto. Il muro è così scavalcato in tre posti. Se la porta resiste ancora, noi siamo già entrati. Abbiamo spezzato il baluardo; però altri ed altri la montagna ne oppone al di là.

      I nostri progressi, sicuri, solidi, non possono essere che lenti. Non è osservando per qualche giorno il panorama della battaglia centrale che può esser dato di scorgerli. Essi si rivelano all'improvviso, ora in una zona, ora in un'altra, e spesso quello che si vede non è che una preparazione, come il picchiare faticoso sopra una roccia è la preparazione della mina che la farà crollare.

       Indice

       5 agosto.

      Sono arrivati improvvisamente. È stato un succedersi affannoso di camions d'ambulanza sulla ghiaia fine dei viali, all'ingresso dell'ospedale chiaro ed elegante come una grande villa; e a mano a mano che venivano discesi dai veicoli, in un affaccendamento pieno di delicatezza e di ordine i feriti erano accolti nel vestibolo, spogliati delle loro uniformi lacere e sporche di sangue disseccato, trasportati con cautela nei letti bianchi che si allineano nelle vaste sale luminose e fresche, dalle cui ampie finestre spalancate giunge appena, simile ad un lontano rombo di marea, il profondo respiro della città. Poi la quiete si è ricomposta nel nitido edificio, e sui volti dei nuovi ospiti si è diffusa a poco a poco una espressione di riposo e di beatitudine.

      Il primo sentimento del soldato che arriva in un ospedale è una specie di dolce stupore per l'immobilità soffice e definitiva che lo accoglie. Assapora il benessere della immobilità con aria trasognata. Non parla. Gira intorno uno sguardo mobile, interrogatore, che studia, che cerca di rendersi conto delle cose nuove che lo circondano e nel quale brilla ancora di tanto in tanto l'esaltazione della lotta.

      Il tumulto del combattimento, la foga ardente dell'assalto fulmineamente interrotta da una palla, l'attesa angosciata, inerte e solitaria sul campo, il trasporto all'ambulanza sotto il fuoco, la medicazione, il viaggio, tutto questo si è succeduto così rapidamente che si confonde nella sua mente febbricitante. Per qualche tempo egli stenta a districarsi dal passato. Quello che avviene è troppo poco in confronto a quello che è avvenuto. Il metallo non si raffredda subito appena tolto dalla fornace. L'anima del ferito è ancora incandescente. Un clamore di emozioni si prolunga in lui come un'eco e riempie il silenzio profondo della nuova quiete improvvisa.

      Ma questa eco presto si spegne, la calma si fa anche nel pensiero, le impressioni si fissano, le idee si chiariscono, la curiosità incerta, vaga e atona dei feriti non cerca più intorno. Fra letto e letto si annodano dialoghi sommessi.

      Nessuno parla della propria sofferenza o s'interessa a quella degli altri. Si parla della battaglia. «Di che reggimento sei? — Del tale fanteria, e tu? — Ah, eravate alla nostra destra. Io sono del tal altro. — Noi attaccavamo sopra San Martino. — Sì, sì, alla nostra destra. Io sono del San Michele». La battaglia li tiene tutti ancora. Il loro spirito rivive incessantemente i momenti supremi e inebbrianti della lotta, rifà il cammino dell'assalto con ostinazione, quasi cercando di poter proseguire oltre la ferita, oltre la caduta, di andare avanti con gli altri, con i sani, con gli arrivati, con la moltitudine esultante dei vittoriosi.

      Spesso, a vederli e ad ascoltarli si dimentica quasi che sono feriti. Si varca la soglia dell'ospedale col cuore stretto, preparati ad uno spettacolo di dolore, e la pietà per i corpi martoriati si attutisce di fronte ad una gagliarda e piena salute delle anime, calda di entusiasmo.

      Non somigliano ai feriti delle altre guerre. Ordinariamente, il soldato colpito durante l'azione conosce il duro sforzo della lotta, ma il risultato è per lui vago, impreciso o ignoto, si perde in una rossa nebbia. Il dolore riconduce il combattente nei limiti angusti della sua individualità. Per lui la battaglia si culmina in uno strazio. Rimane spezzata nella percezione del ferito; egli la ricorda come una fiamma spentasi improvvisamente nel sangue. Perciò, generalmente, il ferito è un pessimista. Ma i nostri no.

      Non so, pare che non sappiano diventar malati, che si conservino combattenti nell'immobilità penosa delle loro membra, che considerino il colpo ricevuto come un incidente, come una corvée. Rimangono soldati, è in loro l'anima dell'esercito. Distesi nei loro letti, sovente sorridono e scherzano. Gli stessi uomini, se fossero rimasti feriti nella vita privata, se fossero atterrati così dalle disgrazie del lavoro,


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