Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
E tutti via, verso il fumo.
Dissipatasi la nube, si vide a terra una buca larga cinque o sei metri, profonda tre o quattro. Si facevano le più svariate ipotesi. In quel momento, nell'aria s'avvicinò un rombo che si spense in un soffio possente, e subito dopo un'altra nube di fumo, un'altra detonazione profonda, dalla parte opposta della stazione. «Ah, ma sono cannonate!» dissero allora tutti come tranquillizzati. Il mistero era perfettamente chiarito. La cosa diventava naturalissima. Diamine, cannonate in tempo di guerra, niente di più logico. E il lavoro fu ripreso, quietamente, serenamente.
Ognuno tornò al suo posto, con qualche fierezza di sentirsi al fuoco, e la stazione di Cormons continuò a funzionare con perfetta regolarità, come se niente fosse. Nemmeno gli abitanti della città si spaventarono. L'effetto morale fu veramente straordinario.
È anche vero che le granate da 305 non toccarono nessuno.
Dove tirano ora i famosi obici? È difficile indovinarlo. Non hanno molti colpi da sprecare. La loro vita è breve. Ogni ora, ogni due ore, un rimbombo, che pare lo scoppio d'una polveriera. Non vediamo nè il bersaglio nè il cannone. Forse è al di là delle colline che i proiettili cadono, a nord di Podgora. Chi sa? Quello che si vede di una battaglia moderna è così poco!
Essa si delinea vagamente, e ogni dettaglio sfugge. Non vorrei nutrire nel lettore l'illusione che io sia testimonio oculare di tutti i particolari che racconto. Tuoni e fumo, ecco quel che sento e quel che scorgo, e la linea del combattimento invisibile si rivela lentamente nell'immobilità solenne del paesaggio, da campanile a campanile, da costa a costa. Ma da ogni parte, laconiche ed eloquenti, delle notizie arrivano, parole che cadono al passaggio di staffette veloci, informazioni sommarie che scaturiscono dall'allacciamento dei servizi, voci che la battaglia propaga dalle trincee sui nervi delle retrovie: «Il nostro battaglione è andato alla baionetta». — «Siamo ora sulle seconde linee». — «La tale posizione è presa». — «Abbiamo fatto dei prigionieri». — «Tutto va bene, evviva!»
Le località indicate sono in una bruma pallida, ma non sembrano più impassibili al nostro sguardo dopo quello che sappiamo di loro; esse assumono una espressione indicibile; ci pare di conoscerle profondamente; le sentiamo amiche o nemiche, sottomesse o pugnaci, a seconda che accolgono o trattengono la nostra avanzata.
Tutto si anima, tutto vive, tutto palpita, vi è una torva ostinazione sul profilo di Podgora, e il Sabotino alto e fosco vigila come una spia. Dietro alle sue spalle si sporge il Monte Santo, che solleva ipocritamente sul vertice il puro biancore di un santuario e nasconde artiglierie austriache in tutte le pieghe delle sue pendici. Il Sabotino indica, il Monte Santo spara. E più in basso spara il colle Santa Caterina, che non si lascia scorgere, in agguato, irto di cannoni anche lui.
No, non si vedono più gli uomini nella guerra d'oggi, sono divenuti troppo piccoli nella vastità, nella imponenza, nella possanza della loro azione; ma entro la solitudine apparente della battaglia i luoghi stessi, con le varie fisionomie del paesaggio, sembrano divenuti i veri protagonisti della lotta, combattenti favolosi pieni di corruccio, di sdegno, di forza; e da montagna a montagna, fra le vette ferite, s'accanisce un duello titanico a colpi di fulmine.
Alle spalle della battaglia, le strade non sono tutte deserte. Una vita strana vi serpeggia, appena visibile, che più lontano dal fronte di combattimento si allarga sicura e viene ad innestarsi nella popolosa e attiva normalità degli accampamenti e dei bivacchi, dei parchi di rifornimento e dei depositi, delle ultime stazioni di carreggio, e arriva fra gli affollamenti gai e vocianti delle riserve, incuranti del cannone, dal quale salgono canti spensierati.
L'artiglieria austriaca batte ad intervalli le strade, senza vederle. Vi mette delle barriere di fuoco anche quando non passa nessuno. Cerca di indovinare le arterie di rifornimento. Si assiste palpitando alle avventure di piccoli convogli che vanno lentamente verso il fuoco, di batterie che si spostano al passo con una solennità sdegnosa chiamate su altre parti del fronte, di squadroni, di staffette, mentre percorrono le strade bombardate. «Si fermano? Sono colpiti?... No, vanno avanti. Ma fate presto che Dio vi benedica!». — E attraverso sinistri spiumacciamenti di fumo quel piccolo movimento di cavalli e di uomini, ai quali s'afferra tutta la nostra passione, procede impassibile, superbo.
Mossa è bombardato, San Lorenzo è bombardato, la strada che li unisce è sotto al fuoco, si vedono gli scoppi indicarne col fumo il tracciato. Della gente che viene di là arriva con una imperturbabilità sbalorditiva. Un'unità di cavalleria ha un'aria di contentezza emergendo dalla zona battuta, verso Medea. «Anche un colpo da 305 ci hanno tirato!» — annunziano i soldati per affermare fieramente la loro importanza, e fanno piede a terra. Fra loro due soli colpiti, leggermente, che sono rimasti in arcione ed hanno avuto le congratulazioni dei compagni vicini.
I due privilegiati si fanno medicare e tornano al loro cavallo che aspetta con la briglia attorta all'asta della lancia piantata nel suolo. Da quando è cominciata la guerra, in tutta una divisione di cavalleria avviene questo fenomeno: che non c'è più malati. I soldati che non si sentono bene, si curano da loro per paura d'essere mandati all'ospedale.
Sereni ma stanchi, quelli che arrivano da più lontano portano un'eco di assalti. Sono descrizioni rozze, concise, vive, palpitanti. Esse ci fanno vedere i nostri soldati furibondi degli ostacoli, appiattati avanti agli inattaccabili baluardi di calcestruzzo, che soltanto una valanga di esplosivi può schiacciare, gridando ingenuamente agli austriaci: «Venite fuori dal buco, attaccateci se avete fegato!».
Sembra strano, ma sono quelli che vengono dal fuoco che sono più avidi di notizie. Non hanno visto che un punto, un angolo, un episodio della battaglia. Essi domandano a coloro che sono lontani, e questi si precipitano sull'estraneo che arriva dal di là delle zone di guerra, dalla quiete operosa della nazione. L'esercito, isolato, non conosce nemmeno i bollettini ufficiali.
In Francia e nel Belgio è stato creato il Giornale degli eserciti, per informare le truppe. Si sono riconosciuti i pericoli dell'oscurità. Una volta, il soldato la battaglia la vedeva. Ora essa è per lui un grande mistero, la decifrazione del quale non è prudente sia lasciata ai «si dice», sempre eccessivi, che si trasformano propagandosi, e si esagerano. Avvengono sul fronte fatti così meravigliosi di fulgido eroismo, che la loro conoscenza fornirebbe alle truppe infiniti argomenti di orgoglio.
Quando l'Italia dichiarò la guerra, l'annuncio fu dato istantaneamente su tutto l'immenso fronte francese, inglese, belga, e l'entusiasmo scoppiò in canti formidabili, per trasformarsi poco dopo in furibondi e fortunati assalti. Vi sono notizie preziose per il morale delle truppe. Le vittorie, gli ardimenti, le ragioni di ogni decorazione, le citazioni all'ordine del giorno, le manifestazioni patriottiche del paese, lo slancio nazionale per provvedere all'avvenire delle famiglie dei soldati, sono cose che, potendolo, dovrebbero essere portate formalmente a conoscenza dell'esercito. Il suo ardore non potrebbe essere più grande, la sua fede non potrebbe essere più ferma, ma le virtù che sono in lui avrebbero conforto ed alimento.
Tutti ricordano come, nei primi giorni della nostra guerra, in ogni città d'Italia delle voci, la cui origine è chiaramente austriaca, volevano far credere alla distruzione di un reggimento che variava da città a città, che era romano a Roma, fiorentino a Firenze, milanese a Milano. Ebbene, ho trovato degli ufficiali e dei soldati di un reggimento meridionale angosciati perchè qualcuno ha detto loro che al paese le loro famiglie li credono tutti morti e li ha assicurati che la notizia del loro massacro era comparsa sui giornali.
«Non è vero! — ho protestato con indignazione — chi è venuto a inventarvi queste indegnità?» «Un borghese che era da queste parti» — mi hanno risposto. Il borghese che era da quelle parti lavorava apparentemente, povero untorello, a spargere anche fra le truppe il suo inutile veleno. Ma non abbandoniamole alle voci, noi non sappiamo fino a dove l'agente nemico può penetrare, fissiamo il pensiero dei soldati sui fatti, così belli, che avvengono in magnifica dovizia dove si combatte e dove si aspetta, e che essi in tanta parte ignorano.
Sopra una delle alture da cui si domina la vallata dell'Isonzo, c'è come una piccola terrazza naturale, ombreggiata di acacie. Durante le fasi più attive dell'azione, dei generali sono saliti lassù. Il Re vi è comparso due volte. Il suo arrivo è stato annunziato da un'acclamazione clamorosa. Tutto un accampamento di riserve,