Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
di salici e di pioppi entro la quale la fanteria austriaca veniva ad annidarsi di notte schioppettando a intermittenza, e più in là l'uragano di acciaio e di piombo batteva i vigneti, tempestava le strade, esplorava la pianura in ogni ripiego. Era uno spettacolo terribile. I balenii dei colpi e delle esplosioni illuminavano la notte di una tremula luce violastra, e sulle nostre truppe la veemente moltitudine delle traiettorie formava una vôlta sonora, una vôlta ululante.
Alle nove precise, silenzio.
L'Isonzo ha qui due corsi d'acqua, vicini alle due rive, e nel mezzo, fra l'uno e l'altro, la vasta distesa di ghiaia. Durante il bombardamento che immobilizzava il nemico, il ramo più vicino fu rapidamente passato a guado: è basso e con poca corrente. Nel lampeggiamento delle cannonate si vide un formicolìo nero e silenzioso di truppe traversare la spianata sassosa del letto e portarsi sul corso più profondo trasportando il materiale necessario alla costruzione di zattere.
Quando l'artiglieria tacque, all'ora stabilita, nella quiete improvvisa pesava l'emozione di una grande attesa. Zattere piene di soldati vogavano nel buio. Le prime compagnie si gettavano sulla sponda sinistra occupandola. Altre forze si aggiungevano a loro. L'occupazione si allargava. Si formava solidamente una testa di ponte. Per il passaggio del grosso, intanto, il Genio lavorava alacremente a costruire solide passerelle. Una ordinata e febbrile attività da cantiere attraversava il fiume.
Ogni tanto due, tre lampi vividi, delle esplosioni: cannonate austriache. La fucileria crepitava ad intervalli, dominata dallo scoppiettìo regolare delle mitragliatrici: era la linea della nostra occupazione che avanzava, sloggiando piccoli reparti austriaci dalle loro trincee. Se si ostinavano, era l'assalto.
Si udiva allora echeggiare alto, intenso, entusiasmante, l'urlo trionfale: Savoia! Passava nella notte il grido tempestoso che faceva battere i cuori dell'esercito in attesa. S'indovinavano gli episodi dell'occupazione nel risveglio del fuoco e nel levarsi delle voci. Verso la metà della notte si è capito che gli austriaci contrattaccavano. Ma si è pure capito subito che erano ricacciati. L'oscurità è stata per un istante tutta piena di un eloquente vocìo di vittoria.
Pochissimi feriti. Dei soldati sono tornati indietro con le mani lacerate dai fili di ferro dei reticolati che essi avevano strappati. All'alba le nostre colonne passavano serrate l'Isonzo sui tavolati nuovi e risuonanti, e i tentacoli delle avanguardie avanzavano già verso le alture di Monfalcone.
Sono le riserve che passano adesso.
AI PIEDI DEL CARSO.
20 giugno.
Nel polverone denso, che incanutisce le siepi e incipria i pampini, sulla strada bianca, affocata, accecante, uomini, cavalli, veicoli si muovono come in una nebbia ardente, e sembrano ombre.
I soldati, già abbronzati dal sole, con quella fisionomia invigorita e fiera che è data dalla sana fatica del campo, marciano in silenzio, ordinati, un fazzoletto intorno al collo. Alt! Zaino a terra! Col peso dello zaino pare che essi depositino la stanchezza; conversazioni e risate si levano improvvise. È un vocìo allegro da scolaresca.
Largo! largo! — con uno scalpitìo serrato, con un rombo pesante di ruote massicce, con un frastuono metallico, delle batterie passano lentamente come in un fumo d'incendio. Al passo dei forti cavalli normanni le grigie macchine da guerra, che non somigliano più che vagamente agli antichi cannoni, procedono in una solennità formidabile. La fine della colonna si perde nei nembi della polvere. Delle automobili dello Stato Maggiore si aprono un varco fra tanti ostacoli, e filano verso il fiume.
Là la strada cessa, il polverone si dissipa, e nell'aria tersa si profilano lontano le pendici del Carso nude, grigiastre. Dalle vegetazioni della piana emergono chiari e aguzzi i campanili dei villaggi come fari sopra un mare.
Sulle passerelle che sostituiscono il ponte distrutto le colonne si assottigliano e si sgranano, i cannoni ed i cassoni si spaziano per superare con una galoppata l'ostacolo delle ghiaie. I conducenti scendono di sella e corrono a piedi, schioccando la frusta, aggrampati alle criniere.
Il cannoneggiamento è vicino. Si vedono scoppiare gli shrapnells in alto sugli alberi; e dal nord, da Gradisca, da Podgora, da Gorizia, arrivano boati profondi di artiglierie pesanti.
Presso le rovine del ponte bruciato, dove l'antica strada, all'alto della ripa, sembra mozzata da una lama e sporge sul fiume un moncone fra parapetti spezzati, sono le ultime trincee austriache, intorno alle quali il Genio ha accuratamente raccolto in enormi gomitoli il filo di ferro dei reticolati spinosi. Ci sarà utile. In qualche angolo inesplorato si rinvengono ancora certi ramponi di ferro a quattro punte, dei quali gli austriaci si servono forse per ostacolare il passaggio ai cavalli, o per armare fosse da lupo. In qualunque modo si gettino, i ramponi rimangono con una punta eretta, aguzza come un pugnale. Somigliano ai «triboli» che i soldati romani spargevano per ostacolare l'assalto dei nemici, barbari a piedi nudi.
Sotto gli alberi, al bordo della trincea, una sedia, quella povera sedia che compare melanconicamente su tutti i campi di battaglia, che si rinviene abbandonata, sbilenca e triste, ovunque la guerra ha fatto una sosta.
A difesa di questa regione del basso Isonzo gli austriaci hanno trovato un alleato nell'acqua dei canali.
Ai piedi delle alture che sovrastano Gradisca e Monfalcone, scorre un canale creato a scopi d'irrigazione e per usi industriali. Un'alta diga maestosa, lunga quasi mezzo chilometro, chiude l'Isonzo presso il ponte di Sagrado, sul quale passa la strada di Gradisca. L'acqua trattenuta forma un vasto bacino che nutre il canale con una corrente di quasi ventidue metri cubi al secondo. Il livello di questo corso artificiale è più alto della pianura. Spezzando un argine gli austriaci hanno potuto trasformare in paludi vaste plaghe al nord di Ronchi. L'altura di Sant'Elia, che è al di qua del canale, è divenuta una penisoletta, e, fortemente trincerata, ha costituito una posizione avanzata del nemico.
Per alcuni giorni, la zona accessibile alla nostra offensiva si è trovata sensibilmente ristretta dalle acque. Il bollettino ufficiale ha narrato dell'ardimentosa azione di una batteria di obici che, portatasi sulla linea della fanteria, ha battuto in breccia una diga. Era la diga di Sagrado. Sfondata quella barriera, l'acqua non si sarebbe più immessa nel canale e avrebbe ripreso il suo corso normale nel letto dell'Isonzo. Ma prima che per questo audace bombardamento l'inondazione, priva d'alimento, defluisse sgombrando il piano, il nostro attacco si è gettato sulle terre rimaste asciutte, più al sud, e per Monfalcone ha preso piede solidamente sulle prime pendici del Carso, in vista del mare.
L'acqua ci è stata nemica, per tutto. Le piene, fra le gole del medio Isonzo, ci portavano via i ponti; a valle l'inondazione artificiale creava avanti a noi dei laghi, e il canale, che con le sue diramazioni si va ora essiccando, forniva intanto la forza motrice di impianti elettrici dai quali gli austriaci derivavano correnti per rendere fulminatori certi reticolati di trincea.
Ma gli austriaci avevano dimenticato che la magnifica opera idraulica dei canali di Monfalcone è italiana, studiata e compita dalla Società Italiana per le condotte d'acqua, di Milano. La perfetta conoscenza dei lavori ci ha permesso di correre subito ai ripari e di ricondurre le acque ad un contegno più patriottico.
Passiamo l'Isonzo.
Una casa sfondata, un hangar demolito, dei muri bucherellati da schegge di granata: si è già nell'atmosfera del campo di battaglia. Ma nessuna battaglia è passata di qui.
Dei cannoni austriaci di mezzo calibro, nascosti sulle alture di Doberdò, tirano sulla strada, e sui villaggi, e sui ponti. Otto o dieci colpi per volta, poi, per due o tre ore non si fanno più vivi. Non combattono, stanno lassù in agguato, e quando vedono in una scìa di polverone un convoglio di munizioni che si avvicina, o un reparto di truppa che si sposta, o un'automobile che corre, giù un po' di grossi shrapnells o di granate, che arrivano con quel loro rombo di motore mal regolato e scoppiano fragorosamente sulla pianura quieta. Tirano persino sulle motociclette col side-car, nella speranza di accoppare qualche generale.
Ma hanno paura di essere scoperti.