Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini

Al fronte (maggio-ottobre 1915) - Luigi Barzini


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calpestati e informi. Un furore d'uragano è passato. Nulla lo avrebbe trattenuto.

      In varie zone montuose, come sull'altipiano di Asiago, le nostre truppe avanzarono, in quel primo giorno, sotto al fuoco di grosse artiglierie da fortezza. Non si vide un'esitazione. Quei soldati nuovi al combattimento salutavano le esplosioni con esclamazioni ironiche. E andavano avanti.

      Le operazioni di quel primo giorno, i bollettini dello Stato Maggiore l'hanno detto, non furono che una correzione di fronte, la quale, contrariamente al senso del linguaggio ufficiale dei nostri nemici, si operava in avanti. Ma il fuoco che allora si accese nell'anima italiana non si estingue più, perchè non è un fuoco nuovo. C'è stato sempre, noi ne sentivamo il tepore sotto la cenere. Un soffio sublime ha dissipato le scorie e la gran fiamma s'è levata e ondeggia alta. Tutta la frontiera ne divampa. Abbiamo una troppo grande eredità di eroismo e di gloria per non ritrovarla intera nell'ora inebbriante della nostra lotta più santa contro l'eterno oppressore.

      No, eterno no! Lo scampanìo delle chiese friulane suonava i primi rintocchi del suo funerale.

      Ho narrato del primo giorno, del primo slancio, perchè il resto deve rimanere ancora segreto. Ma v'è lo stesso cuore di quell'ora di delirio. Con lo stesso lieto entusiasmo il nostro esercito schiaccia i forti corazzati del nemico, assalta e conquista di colpo delle ridotte avanzate, si spinge con felice sapienza, con audacia paziente, fin sopra a delle trincee blindate.

      Dove non si va con quest'anima?

       Indice

       19 giugno.

      È per la strada maestra che questa volta mi avvicino alla guerra. Nelle regioni della frontiera — diciamo dell'antica frontiera perchè la nuova cammina — la ferrovia, tutta intenta a trasportare soldati e munizioni, lascia i viaggiatori sui binarî morti. E ve li dimentica. Nelle piccole linee i treni per il pubblico ritardano in media dodici ore nei primi quaranta chilometri. Uno solo, che io sappia, è arrivato in perfetto orario: partito da Udine si è trovato a San Giorgio di Nogaro all'ora indicata. Ma era il giorno dopo. Così la strada maestra è ritornata in onore.

      Da quando fu inventata la locomotiva non aveva visto più tanto traffico. Vi passa tutto il commercio della provincia, tutto il movimento dei mercati e delle fiere. Perchè non un mercato è stato sospeso, e a Treviso, a Portogruaro, a Latisana, a Oderzo, in piena zona di guerra, le piazze antiche e pittoresche si affollano al mattino di venditori e compratori venuti dalla campagna, i merciaiuoli ambulanti erigono le loro baracche, e tutto si passa come in piena pace.

      Sulle magnifiche strade, che sembrano viali di parchi, ombrate da vecchi platani rigogliosi allineati sui bordi, è un viavai di carri, di carrette, di biroccini, che s'incontrano con lunghe file di autocarri pesanti e grigi del servizio militare. Stupisce e rallegra la serena attività del paese, la quieta normalità che permane anche nelle regioni che odono il rombo del cannone.

      La guerra non ha mutato nulla, non ha toccato nulla. Ricordo la tragica sospensione di ogni vita negli altri paesi belligeranti quando il grande conflitto s'iniziò. Si vedevano i segni del lavoro subitamente interrotto sulla campagna francese divenuta deserta, si sentiva l'allarmi, la paralisi, l'angoscia della nazione intera, i villaggi solitari avevano un'espressione desolata, e, cessato ogni commercio, le città costernate tacevano, con le vie quasi vuote fra i negozi chiusi.

      Uno straniero che arrivasse fra noi ignaro (per un'ipotesi fantastica) degli eventi, non sentirebbe la guerra nella vita intensa delle nostre città e nella tranquilla operosità dei nostri campi, non si accorgerebbe che stiamo combattendo la più grande lotta della nostra esistenza nazionale.

      La guerra ci ha trovati pronti, e niente altro che l'immutata fisionomia della nazione, mentre milioni d'italiani si battono, è già una grande prova di potenza.

      Nei vigneti e nei frutteti si lavora, e dalla campagna luminosa, che non è mai sembrata così bella, così folta di vigore, così promettente, scolorata qua e là dal primo imbiondire delle messi, arrivano nella serenità ardente del meriggio i canti dei contadini all'opera, le antiche canzoni dei campi, semplici, larghe e solenni come preghiere.

      L'automobile che mi porta fila nella immensa pianura friulana, attraversa ponti custoditi da sentinelle, passa per stazioni di tappa insediate nelle piccole città, affollate di carreggi, intorno alle quali si allargano bivacchi nereggianti di cavalli e parchi automobilistici.

      Impossibile deviare dalla via buona. Oltre alle tabelle militari, che, affisse ad ogni crocicchio, dicono ufficialmente la giusta direzione, si trovano indicazioni di tutti i generi, consigli diversi sotto forma di «vedi mano». L'entusiasmo degli abitanti ha spennellato sui muri dei paesi delle grandi frecce accompagnate da diciture sommarie e definitive: «Per Trieste!» — « — Di qui per Monfalcone, Trieste e sempre avanti!» — e non si può sbagliare. Più di un paesello ha già battezzato Via di Trieste, o Via della Vittoria, la strada principale.

      Ma la vera, la grande arteria della guerra è la ferrovia. Treni vuoti che tornano, treni pieni che vanno, passano in perpetua successione, lunghi, ansimanti, e nelle stazioni piene d'ordine, custodite da bravi territoriali, inflessibili come la loro enorme baionetta, spesso le truppe che aspettano l'ora della partenza, durante lunghe soste al sole, cantano a squarciagola. Ogni vagone ha la sua canzone, indipendente dal vagone vicino, e il treno intero manda il più spaventoso dei cori. Quando poi il convoglio si muove, il coro si fonde in un tremendo evviva: «Evviva l'Italia!», «Vogliamo Trento e Trieste!». E i gruppi di abitanti, che non mancano mai di affollarsi alle barriere, rispondono.

      I soldati salutano sempre con gioia ogni passo in avanti. Gremiscono le aperture dei furgoni — che delle fronde, dei fiori, delle bandierine adornano — e gesticolano, e ridono, e gridano, seduti alcuni sui bordi, le gambe ciondoloni, mentre dietro agli uomini, nell'oscurità interna, si profilano teste di cavalli, assonnate e gravi; e un'oscillazione di zaini, di cinturini, di giberne, di tascapani, pende dal soffitto. Sui vagoni a piattaforma i carriaggi si allineano, con le stanghe in alto come braccia levate. Sotto a grandi copertoni di tela grigia s'indovinano forme di cannoni.

      Alla stazione di San Giorgio assisto all'arrivo d'un treno di feriti.

      È un treno della Croce Rossa, tutto nuovo. Vestite di bianco, delle dame di un comitato locale vanno premurose da un vagone all'altro distribuendo bibite ghiacciate. Non si ode un lamento.

      La prima cosa che i feriti domandano è d'essere informati della guerra. Hanno sete di notizie. Portati via dall'azione, vogliono sapere quel che è successo dopo, quello che succede altrove. Si direbbe che soffrano più per il distacco dal combattimento che per le ferite ricevute.

      «Che cosa si sa oggi?» — chiedono prima di portare alla bocca il bicchiere madido. «Buone nuove, Monfalcone è presa!». La voce passa da una cuccetta all'altra. Tutti si sollevano sui gomiti, i meno sofferenti balzano a sedere, è una agitazione sotto le lenzuola candide, delle teste bendate sorgono dai cuscini: «Monfalcone è presa!».

      Dei dialoghi brevi s'intrecciano: «Ah, se fossi sicuro d'avere ammazzato un austriaco, non me ne importerebbe della ferita!» — esclama riadagiandosi cautamente uno che ha la spalla fasciata. Dalla cuccetta sopra a lui una voce rauca scende: «Io uno almeno l'ho infilato!» — è un fantaccino che è stato ferito di baionetta alla coscia durante un assalto. Dopo un istante riprende: «Io uno, e lui (additando un altro lettuccio) lui due!».

      Qualche esclamazione d'incredulità, o d'invidia, si leva. «Due, due! — ripete la voce. — Era vicino a me. Ci sono i testimoni. Due austriaci si sono buttati addosso al capitano. Eravamo sulla trincea. Allora lui l'ha spacciati tutti e due, ma ha preso una baionettata. È vero? tu, parla!». — Ma l'eroe non può parlare, manda un mugolìo d'approvazione, poi solleva il braccio nudo, un braccio nodoso, forte, bronzato, che emerge dal biancore del letto e agita l'indice e il medio tesi ripetendo col gesto ostinato: «Due, due, due....».

      «Silenzio, ragazzi! — ammonisce dolcemente un infermiere che passa. — Chi ha ancora sete?».

      L'abnegazione


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