Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
per andare da Modane a Parigi. Noi riusciamo a mobilizzare le truppe lasciando al commercio il suo movimento. I ferrovieri italiani sanno stare al loro posto di combattimento.
Il traffico di certe linee è centuplicato. Delle reti ferroviarie giudicate deficienti ai bisogni normali, sono portate ad un rendimento tremendo, favoloso. Non un convoglio militare indugia sulle vie ingombre, e sono centinaia e centinaia di convogli lunghissimi che s'inseguono. I viaggiatori ritardano, ma essi debbono essere i primi a non lagnarsi, perchè al di là delle tendine calate, nei loro vagoni chiusi, essi odono il rombo perpetuo dei treni colmi di truppe, adorni di verdure, dai quali si spandono sulla campagna cori formidabili e guerrieri. E quelli arrivano in orario.
Dove hanno imparato i nostri soldati i loro canti di guerra? Come risorgono queste antiche canzoni militari che accompagnarono le battaglie della nostra Resurrezione? Chi ha inventato i nuovi inni della nuova guerra? Questa musica rude e ingenua pare che sgorghi spontaneamente dalle masse armate, come si leva l'ululato dalla tempesta. Sono arie primitive rese fiere dalla bufera delle voci, sono rozze strofe ma impetuose e solenni come un giuramento.
Andiamo in guerra
Tuona il cannone
Trema la terra
Ma il nostro sangue non tremerà!
ho udito cantare in una stazione, da un treno in partenza, mentre un altro più lontano urlava:
Noi vogliam la libertà.
Noi vogliam la libertà!
E tutta questa gioia superba e gagliarda arriva alle prime linee, arriva al combattimento. La lotta è apparsa subitamente come una non so quale terribile e magnifica festa. Tutti vorrebbero essere avanti, più avanti. Il rombo delle cannonate è una voce che chiama. Quelle unità che entrano nell'azione, vanno come se non avessero mai fatto altro, superbamente. L'anima vera delle varie genti italiche si rivela in un fulgore nuovo. Un soffio d'eroismo l'ha accesa. È tutta la giovinezza della Razza che ritorna e fiorisce come una primavera. Nell'alterna vicenda della storia un grigio inverno è ora finito. Sono dimenticati i lunghi geli e i gravi torpori. Il vigore trionfale d'Italia erompe, pieno di una formidabile poesia. Lassù, fra le truppe, è una serenità ardente.
Prima di prestare orecchio ad una voce velenosa, pensiamo ai nostri soldati che vogliono e avranno la vittoria, pensiamo ai loro capi che sanno prepararla e conseguirla, e crediamo fermamente in loro. Nessuna speranza sembra troppo grande, nessuna mèta sembra troppo alta, per chi ha visto il primo passo delle nostre truppe. A loro la nostra confidenza illimitata.
Sappiamo aspettare e tacere. Facciamo della nostra certezza una corazza. Un dubbio è un tradimento. Convinzione, ordine e calma sono le armi del popolo nella grande guerra. Seguiamo l'esempio dei nostri eroici alleati, noi che entriamo nel conflitto al loro fianco. Evitiamo d'indovinare, evitiamo anche di discutere, una parola inutile può essere una parola dannosa. La disciplina dei ranghi scenda fra noi.
Noi, popolo, siamo come gli equipaggi che nelle cieche stive della corazzata nutrono i forni, caricano le munizioni negli ascensori, fanno camminare, manovrare e combattere la nave, ma che non possono sapere subito quello che avviene sopra, all'aria aperta, dove si combatte, sui ponti e nelle torri blindate, e che ignorano le fasi attuali della battaglia. Essi debbono essere tutti al loro lavoro, senza cercare di capire, esatti, alacri, compresi della necessità di agire senza esitazione e senza scoraggiamenti, sentendo quanta parte della vittoria si appoggi sulla loro opera oscura e sulla fiducia da essi riposta nel comando supremo e negli uomini che si battono.
Ebbene, i boccaporti sono chiusi, c'è combattimento sui ponti, attenti ai comandi, o Genti delle stive! Non vi fermate, dominate ogni curiosità e ogni ansia, una mano ferma, una mente luminosa, un cuore leonino reggono le sorti della possente nave Italia, e dietro ai cannoni vi sono petti che anelano alla vittoria!
E la vittoria sarà nostra.
«MORALE ALTISSIMO».
5 giugno.
«Morale altissimo» — dicono i bollettini ufficiali. Lo Stato Maggiore, laconico e pacato, non dedica che una parola all'anima dell'esercito. Il Paese deve averne avuto un'impressione di baldanza. Ma nulla può conferire il senso della realtà quale si è rivelata a noi, subitamente, già nel primo giorno della guerra nel quale sentimmo passare sulle nostre schiere un magico soffio di esultanza, la folata di vento d'un colpo di ala immane, invisibile, favolosa.
No, la Nazione non sa ancora. Per dare un'idea dello spirito delle nostre truppe, vorrei poter descrivere niente altro che la febbre di quel 24 maggio nel quale si tracciò la prima parola della nuova e gloriosa pagina della nostra storia. Quale giornata di luce, di gioia, di ebbrezza!
Abbiamo la sensazione che essa abbia inciso profondamente la sua data non nella nostra povera memoria d'uomini soltanto, ma nella memoria della stirpe. La nostra emozione e il nostro entusiasmo avevano una pienezza e una violenza che sorpassavano la misura della nostra anima perchè erano sentimenti di una personalità più grande della nostra: la Razza. Erano in noi, erano nell'esercito nostro, l'attesa e l'ansia delle generazioni passate, nutrivamo tutti inconsapevolmente delle speranze secolari, avevamo nel cuore l'eredità preziosa e dolorosa del sogno patriottico dei nostri padri. Sì, i morti si levano, i morti ritornano, essi sono nel nostro spirito e nel nostro sangue, il loro palpito gonfia il nostro palpito, la loro forza è nel nostro slancio, e per essi noi abbiamo provato l'immensa ebbrezza di un'ora nella quale il loro voto si compiva. Sentivamo nel petto un confuso delirio di moltitudini. Abbiamo avuto coscienza di un entusiasmo che echeggerà nell'avvenire. Noi siamo gli eletti nei quali s'è impresso un fulgido ricordo che sarà vivo nei figli nostri e nei figli dei loro figli, sempre. L'eredità sacra si perpetua.
La giornata del 24 avrà forse un'importanza secondaria nel freddo calcolo dell'azione militare. Ma per la Storia è la giornata in cui l'Italia «ruppe gl'indugi». Essa ha una luce che non si estingue. Da quella prima mossa divampò un calore che fuse le anime dell'esercito in un metallo nuovo, compatto, puro, scintillante, ardente. Ne fummo abbacinati e soggiogati.
Questa data ha già per noi un non so quale senso di solennità antica, di imperitura santità, e la immaginiamo segnata come una festa nei calendari del futuro. È stato il Natale della definitiva Unità Italiana. Si passò la frontiera.
L'urlo delle truppe esultanti nel momento in cui, ad ogni varco, mettevano il piede sulla Terra Irredenta passò irrefrenabile, profondo, prodigioso, sovrumano. Si sentì dalle cittadine più prossime, si sentì da Palmanova che issò il gonfalone sull'antenna veneta, si sentì da Jalmicco, da Medeuzza, da San Giovanni di Manzano, si sentì da tutti i paesi nella regione immediata dei confini.
Era un'acclamazione tuonante che si levava, si estingueva, risorgeva, veniva da un lato, rispondeva dall'altro, serpeggiava nella pianura, scendeva a ondate per la vallata; e più su, dalle vette boscose sorgeva lontano, nella serenità calma e meravigliosa dell'alba purissima, l'immane grido augurale dell'esercito, il poderoso grido di guerra che l'Italia lanciava per la voce dei suoi figli, e pareva l'ululare remoto d'una bufera.
La dichiarazione di guerra era rimasta ignorata negli accampamenti, che negli ultimi giorni s'erano fatti densi e vasti. Verso i confini, nella campagna ubertosa, era tutto un brulicante grigiore di truppe. Verso i lembi d'una ferita il corpo sano manda a pulsazioni serrate il sangue più ardente a cicatrizzarla in una congestione dolorante, e così sulla ferita delle nostre inique frontiere che tagliavano la carne viva della Nazione era affluito il più bel sangue nostro, la forza fiammeggiante e pura che chiuderà la piaga, tutta la gioventù d'Italia.
Il lavoro dei campi continuava intanto vicino alle trincee. Prevedendo di essere chiamati alle armi, i contadini avevano anticipato la zolfatura delle viti. La calma della popolazione era magnifica. Da alcuni paeselli che potevano trovarsi sulla linea del fuoco, gli abitanti avevano allontanato le donne e i bambini, poi gli uomini validi erano tornati al lavoro. Avere la propria terra sconvolta da una trincea era argomento di fierezza. L'esodo