Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini

Al fronte (maggio-ottobre 1915) - Luigi Barzini


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Ad essa si deve se i nostri feriti sono quasi tutti leggeri. La gravità d'una ferita è spesso prodotta soltanto dal ritardo delle prime cure. Con questo calore torrido, anche gl'infermieri, stanchi, debbono aver sete, e pure essi rifiutano le bibite che vengono offerte anche a loro quando tutti i feriti hanno bevuto.

      L'attesa è lunga alla stazione; occorrono molte manovre per sgombrare al treno la via, e nei vagoni chiari, odoranti di medicinali, si rifà il silenzio. Alcuni feriti, che dal comitato delle dame hanno ricevuto in dono delle cartoline militari e dei lapis, scrivono lentamente, seduti sul letto. Uno fuma voluttuosamente una sigaretta e ne scaccia il fumo facendo ventaglio della mano, perchè è proibito fumare. La stazione sembra divenuta deserta. Sul marciapiede affocato passeggia il territoriale di sentinella, solo. Fischiano le locomotive laggiù verso i dischi, sui binarî abbacinanti, e il cannoneggiamento brontola dalla parte del Carso.

      Il desiderio di tornare al fronte è comune a quasi tutti i feriti. È in loro la fede profonda e l'aspettativa della vittoria. Si rammaricano di esser portati via «sul più bello». Sono presi dalla passione della battaglia, dall'istinto della lotta, sentono ardentemente tutta la grandezza e la giustizia sacrosanta della nostra guerra, ma sopra tutto hanno come il sentimento che «si ha bisogno di loro», la preoccupazione di un posto vuoto lasciato nelle file. È uno spirito straordinario di solidarietà, è un senso altissimo del dovere, che rivelano nella razza virtù guerriere d'una possanza insospettata.

      All'ospedale di San Giorgio è ricoverato un soldato automobilista; conducendo la sua macchina, per evitare due cavalleggeri che chiudevano la strada ad una svolta, egli era andato a finire nel fossato, ferendosi contro al volante. Correva incaricato di una missione: ora il suo incubo è di compierla. Ha la febbre, non può muoversi dal letto, ma prega, scongiura medici e infermieri: «Bisogna che io vada, credete, è importante, lasciatemi andare, tornerò dopo...!». Questo senso di un dovere assoluto, improrogabile, sacro, di un dovere che va compiuto ad ogni costo finchè c'è un alito di vita, è diffuso nell'esercito ed ha la profondità d'una convinzione religiosa.

      Per tutto dove passo trovo degli esempi umili e magnifici di questa nobile comprensione del dovere, anche fuori dei combattimenti, nell'oscura fatica dei servizi. Ecco, in vicinanza del fronte, a Medea, sulla via polverosa passano i cucinieri di un reggimento che sono andati per l'acqua; sono sporchi, sono stanchi, non dormono che tre o quattro ore per giorno, sul far dell'alba. Uno di essi, dagli occhi febbricitanti, ha la mano destra fasciata, enorme, sollevata e tremante. Porta il secchio sulla spalla sinistra. «Come stai?» — gli domanda affettuosamente un ufficiale superiore. Il soldato, un contadino calabrese piantato sull'attenti, risponde: «La mano mi fa male ancora!». Quando si è allontanato, l'ufficiale mi spiega: «È caduto, e cadendo si è immerso la mano nell'acqua bollente; il medico gli ha ordinato di coricarsi sotto la tenda, di restare in riposo, immobile, ma lui dice che c'è troppo da fare, ed ha pregato i superiori di lasciarlo lavorare finchè Dio gli dà la forza di resistere».

      Poco lontano, a Viscone, ad una tappa di carreggi, passa lungo i muri del villaggio un sergente d'artiglieria zoppicante, col piede sinistro fasciato. È stato ferito e mandato alla medicazione, ma egli afferma che non è niente ed evita i posti sanitari perchè «lo portano via». «Sono sicuro — mi dice — che riposandomi qui domani potrò rimettere la scarpa e rimontare a cavallo; così ritrovo subito la batteria....».

      Egli si è fermato a portata di voce, per dir così, della sua batteria, e ne ascolta i colpi lontani, e li riconosce: «Ecco, è lei.... — e con un sorriso soddisfatto — Come sona duro, eh?». Il profano non sente che un confuso e formidabile rimbombare di tuoni verso Gorizia.

      Avanti, gli avvenimenti ci chiamano con questo rombo tempestoso. Andiamo verso l'Isonzo.

      Come tutto prova l'iniquità della frontiera che abbiamo cancellato! Come ogni cosa è italiana al di là! Vi è l'impronta nostrana sulla terra, nel paesaggio, nella natura. Le vegetazioni come gli uomini gridano la loro italianità. Presso antiche ville, che hanno nomi legati alla nostra storia, vecchi cipressi muscolosi ergono la loro mole gigantesca, oscura, solenne, che sembra un'affermazione vigorosa e superba di nazionalità; si direbbero il simbolo caratteristico del nostro suolo; le coltivazioni, i parchi, i giardini, tutta questa campagna meravigliosa, prodigano forme e colori che sono unicamente della nostra patria. Viaggiando sulle regioni conquistate s'intuisce una unità più profonda ancora di quella della razza, dei costumi, della lingua, un'unità perenne, inalterabile alle emigrazioni e ai dominî, eguale sotto alle correnti e alle tempeste umane, una unità eterna: quella della terra.

      La strada bianca corre ancora nell'ombra dei platani, e di tanto in tanto qualcuno di questi giganti, tagliato per formare una barricata austriaca, giace abbattuto, rovesciato nel fosso o sul bordo erboso. Barricate e trincee chiudevano la via ad ogni svolto, ad ogni ponticello. Ma nessuno le ha difese. Fino a Cervignano, per avanzare non s'è avuta che la fatica di rimuovere gli ostacoli. A Cervignano pochi colpi di fucile. Un ponte di ferro, all'entrata del paese, era barrato da un terrapieno e da un'abbattuta d'alberi. Una cannonata, che ha lasciato il segno sull'armatura del parapetto, è bastata a mettere in fuga i difensori.

      Il paese ha ripreso un'aria tranquilla e sonnolenta, e i convogli militari passano con frastuono per le strade antiche, anguste ed affocate, fiorite di bandiere. Al di là, verso l'Isonzo, un polverone denso annebbia la pianura. Il cannoneggiamento è più vicino. Nell'aria limpida, chiaro, metallico, diafano, un pallone frenato si libra.

      Ancora pochi minuti, e ci troviamo fra le truppe. Dei reparti passano il fiume. Sulle alture di Monfalcone la battaglia rugge.

      La nostra prima avanzata, che qui giunse d'un balzo a pochi chilometri dall'Isonzo, non fece in tempo a salvare i ponti. La loro distruzione era forse inevitabile.

      Il ponte della strada carrozzabile, lungo più di cinquecento metri, tutto di legno, ma largo e solido, ha bruciato completamente. Vedevamo da Palmanova e da Cormòns, il giorno 24, le colonne turbinose di fumo di questo incendio lontano, e pareva che una città ardesse. Si credette anzi, al primo momento, che gli austriaci avessero appiccato il fuoco a dei paesi, per vendetta.

      Dei piloni, formati da fasci di travi, non rimangono che alcuni mozziconi carbonizzati, emergenti ad intervalli regolari dall'acqua azzurrognola e dalla ghiaia bianca, sull'immensa spianata del vasto letto. Tutto il resto è scomparso. Le piene ne hanno cancellato ogni vestigio.

      Il ponte della ferrovia, poco discosto, è stato minato, e l'armatura d'acciaio, ricaduta sulle macerie dei piloni crollati, disegna sullo sfondo luminoso del fiume come una trina nera, a larghe centine, spezzata nel mezzo, lacerata e scomposta. Queste rovine dànno la prima sensazione profonda di un paesaggio di guerra.

      Gli austriaci avevano cominciato a preparare delle forti difese sulla riva destra. Non si trattava più di barricate frettolose. Lunghe, solide, massicce trincee, dei larghi terrapieni che sembrano dighe, i quali emergono freschi, del colore di terra smossa, al di qua della boscaglia che fiancheggia il fiume e gli fa come una scorta di verde, indicano l'intenzione di fortificare solidamente il passaggio, di creare anche lì una testa di ponte. La rapidità della nostra mossa iniziale ha ricacciato il nemico sull'altra sponda. Ritirandosi, gli austriaci hanno anche distrutto, con delle mine, un pezzo di strada, all'approccio del ponte.

      Ma bisognava passare, e siamo passati.

      Le riparazioni della strada, i preparativi per il varco del fiume, sono stati compiuti sotto ad un fuoco intermittente di artiglieria, al quale rispondevano i nostri cannoni appostati sulla pianura. Qui, la truppa di questo settore fece la prima conoscenza col bombardamento nemico.

      Il bombardamento nemico fu accolto con una indifferenza umiliante. La fanteria, inoperosa nelle sue trincee, conversava sotto gli shrapnells, e il chiacchierìo si sentiva da lontano. Sul bordo d'un fosso, file di soldati inginocchiati lavavano la loro biancheria, cantando a squarciagola.

      Una sera, quando tutto è stato pronto, è scoppiato un inferno.

      Dopo il tramonto, ad un tratto centinaia di cannoni nostri hanno aperto improvvisamente un fuoco serrato sulla riva sinistra dell'Isonzo, spazzandola a tiri progressivi. Ogni batteria aveva la sua zona da coprire di proiettili. Gli shrapnells arrivavano a stormi sul bordo dell'acqua, sulle


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