Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
di doloroso e di triste. Le donne, con i bimbi in braccio, inerpicate sui carri che i buoi trascinavano lenti, salutavano festosamente i soldati: A rivederci, fateci tornar presto, viva l'Italia!
Avanti a tutti, affossate a terra, le vedette. I battaglioni della prima difesa aspettavano l'allarme, di ora in ora, con desiderio rabbioso. Una impazienza di battaglia era in tutti. Aveva maturato nell'esercito la coscienza d'una forza invincibile. Essa veniva dalla fiducia illimitata nei capi, dall'ordine e dalla regolarità con la quale la nostra gigantesca macchina di guerra si è apprestata, e veniva sopra tutto dal sentimento dei nostri diritti, dalla santità della nostra causa, dall'intima convinzione che la vittoria finale debba essere per la Giustizia. L'odio verso il nemico antico, verso il nemico tradizionale, ridivampava. La Storia non si distrugge.
Ma l'attesa pesava.
C'era ancora come una recondita e vaga paura di essere trattenuti. Che cosa aspettiamo? — chiedevano i soldati, che sono semplicisti e che ritengono tutte le preparazioni complete dal momento che loro sono là. I campanili dei villaggi, le collinette che si levano come isolotti nella pianura, gli antichi spalti veneziani di qualche vecchia città, perfino l'alta spianata del Castello di Udine, erano sempre gremiti di soldati che contemplavano le terre italiane da liberare. Le contemplavano con amore, con passione, le prendevano con lo sguardo pensando all'irruzione imminente e all'urto delle armi che li avrebbe portati al possesso.
Si udivano esclamazioni ingenue e appassionate. Alcuni, ignari, arrivati al fronte per dovere, si accendevano a quella vista. Essa era come la visione materiale dell'ingiustizia. Quel profilo dell'orizzonte aveva al loro cuore qualche cosa di dolente; sentivano la Patria del di là, lacerata e oppressa. In quella linea azzurra di pianure che sfumavano nel mare, in quelle creste di monti lontani e diafani, in tutta quella terra dai nomi italiani e la fisionomia italiana, era una non so quale espressione indicibile di chiamata e d'intesa. Fra i soldati italiani che guardavano e l'Italia schiava, passava da anima ad anima un dialogo prodigioso e muto: Venite! — Eccoci!
E l'ora suonò.
Nessuno l'avrebbe immaginata così bella.
Cominciò un movimento di stati maggiori nella notte. Un rombare di automobili destò le città verso le tre del mattino. Uno scoppiettìo di motociclette si disperse nelle tenebre verso mète ignote. Poi in tutti gli accampamenti, nei villaggi, nei centri di deposito squillarono segnali di tromba. L'allegro ritornello della sveglia chiamava e rispondeva sulla campagna buia. Era la diana dell'Italia.
Fu un'onda di febbre e di gioia. L'aurora trovò l'esercito pronto. Mai la rapidità e l'ordine furono così uniti. Le cavallerie in sella, le fanterie schierate, le artiglierie attaccate, e, indietro, tutti i servizi, tutti i convogli, le salmerie, le ambulanze, aspettavano l'ordine d'avanzata. Ogni ufficiale conosceva il suo còmpito preciso, ogni unità aveva il suo obbiettivo, la grande macchina stava per muoversi, regolare e formidabile.
Le avanguardie partirono incontro all'aurora. Il sole sorgeva immane e rosso, e tutto il mondo si tingeva di rosa. Drappelli di ciclisti scivolavano lentamente in esplorazione sulle strade deserte della pianura friulana in tutta la rete della frontiera. Altrove erano pattuglie di cavalleria che inoltravano verso l'Isonzo. Alcune batterie avevano preso posizione per forzare qualche passo che si supponeva difeso. Si aspettava una resistenza fra il Monte Quarin, sopra a Cormòns, e la collina di Medea, e, di fronte a queste posizioni, le alture di Budrio erano irte di cannoni italiani. Le fanterie infine spinsero avanti la loro prima linea spiegata in formazione di combattimento.
Non si può apprezzare al giusto valore lo spirito meraviglioso della truppa se non si tiene conto di questa circostanza: che muovendoci si credeva alla battaglia immediata.
Si aspettava una resistenza. Le informazioni la facevano prevedere. La natura delle posizioni la rendeva logica. La presenza di truppe bosniache e di cavalleria ussara, avvistate dai nostri avamposti, pareva confermare la probabilità di una opposizione.
La nostra fanteria inoltrando immaginava di andare all'attacco. E vi andava con una volontà compatta e lieta. Guadò il Natisone, nel piano verso la frontiera di Cormòns, e avanti, fra gli alberi folti, lungo i margini verdi, nel profumo delle acacie fiorite, nello sfolgorìo del più bel sole di maggio, in un'inebbriante atmosfera di primavera italica. L'onda umana passava gonfia di gioia.
Giunse sulla sponda cespugliosa e fresca dello Judrio: il confine.
Allora fu una frenesia.
La valanga di uomini si precipitò, si avventò fra i roveti nell'acqua per toccare subito l'altra riva. E l'urlo immenso si levò: Italia! Savoia! Italia!
Ad uno ad uno i battaglioni che seguivano in colonne, per tutte le strade, lanciavano sulla soglia dell'Italia Nuova il saluto fatidico.
Nessuna cerimonia può assurgere alla grandiosità di questa acclamazione spontanea, formidabile, irresistibile. Ogni regione d'Italia univa la sua voce al coro tremendo. È possibile che qualche cosa di quella maschia, fiera, ardente emozione dell'esercito non sia giunta al popolo che aspettava?
Sulla pianura soleggiata, un mare di verdure, si spandeva uno squillare confuso e remoto di campane.
Cominciò Villanova a suonare a stormo. Le chiese di Manzano, di Trivignano, di Palmanova risposero. Tutti i campanili si destavano, successivamente. Era la voce del Paese, la voce della Terra, la voce della Patria, che mandava alle truppe il suo saluto, l'inno antico delle sue feste, la musica della sua tradizione. E lo scampanìo a martello dava all'ora indimenticabile una augusta solennità religiosa.
Da quel momento l'Italia era più grande.
Lunghe nuvole di polvere sorgevano basse, a strisce, mettendo qua e là dei veli sulle piantagioni, avvolgendo villaggi, dissipandosi per risorgere più vicino: erano artiglierie in marcia, convogli a cavallo e a motore, il cui rombo si spandeva sommesso e continuo, come un fremito di tutta la piana.
L'antica, la vergognosa frontiera era cancellata.
Più faticosa, ma egualmente esatta fu l'avanzata sui monti. Fuori di ogni strada, fuori d'ogni sentiero, portando nel pesante zaino viveri e munizioni per lunghi giorni, portando sulle spalle anche la legna per cuocere il rancio, anche la paglia per dormirvi sopra, i nostri atletici alpini, coadiuvati in alcuni punti da bersaglieri, da militi della Finanza, esploratori arditi e infaticabili, andarono avanti da vetta a vetta.
Hanno la tattica dell'aquila. Vanno da una cima all'altra, da una punta all'altra. Si annidano sulle sommità, e non c'è forza che potrebbe sloggiarli. Non temono l'isolamento. Fanno di ogni vetta occupata una fortezza inespugnabile. S'inerpicano, s'insediano, si trincerano, e per le valli che essi dominano il grosso marcia al sicuro e si sgrana come un formicaio.
Si videro le cime austriache coronate da loro, una dopo l'altra: il Monte Corada, il Monte Cuk sulle creste del Colovrat. Sul profilo di posizioni altissime, che si supponevano fortemente protette, al di sopra della gran coltre dei boschi, si scorse dopo mezzogiorno il brulicare delle nostre avanguardie. Subito, al primo giorno, ci insediammo in faccia alle fortificazioni nemiche.
Avanzando sulla pianura, le nostre truppe scacciarono avanti a loro i piccoli nuclei austriaci, che abbandonarono in fuga i loro barricamenti, le trincee di arresto, le abbattute d'alberi, tutte le difese preparate all'entrata dei villaggi e ai punti favorevoli. Ritirandosi il nemico faceva saltare i ponti. Le avanguardie italiane vedevano brillare le mine, una vampa, un getto di macerie, una colonna di fumo e di polvere, e le detonazioni spandevano il loro rombo sinistro. Anche un ponte dei più importanti per l'azione era minato, quello sullo Judrio, ma il precipitarsi dei nostri esploratori lo salvò. Era il ponte di confine.
È un ponte di legno, pittoresco, angusto e lungo, che le sponde alte sovrastano chiudendolo come fra due muri di verdura. Per risalire facilmente la riva, le batterie lo passavano al galoppo. I cavalli sferzati si slanciavano, e in un grido impetuoso di «Viva l'Italia!», in uno scalpitìo pesante sul tavolato che tremava tutto, in un tuonare di ruote, in un frastuono d'acciaio, i cannoni sì avventavano.
Passate le prime truppe i segni della frontiera scomparvero. Una forza sovrumana divelse i pali gialli e neri, saldati a macigni, spezzò le aquile di ferro che in cima