Abissinia: Giornale di un viaggio. Giuseppe Vigoni
un portone, passiamo al primo bazar o via fiancheggiata da casine ad un sol piano, coperta da logore stuoie che dovrebbero riparare dal sole. Qui esercitano il commercio di tessuti e filati importati dall'Europa, i baniani, tipi indiani che in tutto il Mar Rosso hanno quasi il privilegio di questo genere di commercio. Sono generalmente grassi, giallognoli, l'occhio tagliato alla chinese, portano per tutto abito un drappo bianco girato alle spalle o alla cintura, attorno la quale spesso tengono pure un bellissimo monile in argento; le unghie e i denti hanno coloriti in rosso, la testa originalmente rasa lasciando solo sparsa qualche ciocca di capelli, grossi bottoni d'oro od argento con pietre preziose infissi nelle orecchie e molto profumo sparso sulla pelle. Sono tipi effeminati, poco simpatici: vivono senza mai toccar carni temendo trovare nell'animale immolato l'anima di qualche congiunto od amico, e morti si fanno bruciare e sepellire con tutte le loro gioie, che sono la maggiore loro ambizione: sono del resto abitanti tranquillissimi che godono fama di onesti non solo, ma di commercianti discreti.
Parallelo a questo abbiamo il bazar proprio del paese, ancora più originale. È qui dove si incontrano i mille tipi diversi: l'arabo che ti fa i sandali, il piccolo negoziante che ti vende grano, riso, datteri attorno ai quali svolazzano nubi di mosche, l'altro che t'offre su un gran bacile qualcosa che somiglia a caramelle, la donna che vende latte acido, burro, pallottole di tamarindi. Un odore nauseante ci annuncia che siamo vicini al friggitore che prepara continuamente frittelle e pesci e tien pronta una gran pignatta piena di riso cotto. E mentre passiamo questa rivista, un ragazzetto verrà ad offrirci un mazzolino di insalata raccolta nella mattina, od una ragazzina dai modi semplici ma garbati, avvolta solo in un lurido cencio, ma ornata di braccialetti alle mani e ai piedi, di grossi anelli d'argento alle dita e alle orecchie, di qualche collana di conterie o di conterie intrecciate ai capelli, e col naso forato da uno stecchetto, insisterà perchè da lei comperiamo qualche limone, cercando collo sguardo penetrante di farci capire che non è solo quello che intende offrirci. Avanziamo di pochi passi, ed avremo il macellajo, che non ha bottega, ma ammazza in pubblico il suo bue, leva la pelle che distesa al suolo diventa tavola, e su questa, colle mani, le braccia, e quella poca camicia tutte rosse di sangue, divide in pezzi la sua vittima a seconda delle richieste, misurandone le parti su una bilancia delle più primitive, che fra l'altre cose i pesi son pietre: rimpetto abbiamo un arabo che vende focacce, e a pochi passi una di quelle botteghe come alle volte si vedono alle nostre fiere, che non hanno nulla di intatto, tutto vi è scompagnato e rotto; non vi si vede oggetto che sembri possa servire, ma pure trovano i loro amatori. Qui vedete qualche panierino colla sostanza che serve a tingere in rosso le unghie, o la galena per tingere l'occhio, qualche droga, poi un'infinità di cianciafruscole cui non si sa adattare nè un uso nè un nome. Siamo sbalorditi da tutta questa novità e dal baccano che rammenta certe viuzze di Napoli; ci ritiriamo per evitare un somaro carico di pelli piene d'acqua e ci sentiamo nella schiena qualcosa di tenero, è un otre colmo di burro fuso portato da una vecchierella, accompagnata da qualche ragazzetto in costume prettamente adamitico, che ci rivolge lo sguardo intelligente che dinota timore o sorpresa: vorremmo accarezzarlo se fosse un po' meno sucido, non possiamo però trattenerci dal mettergli nelle manine qualche piastra.
Usciti da questi bazar ci troviamo in una piazza dove è il caffè, logora tettoia di paglia sotto la quale si radunano le poche persone trattabili che qui abitano, e vi passano delle ore intiere sorbendo caffè alla turca e fumando sigarette o narghillè: da qui proseguendo, abbiamo qualche abitazione ancora in pietra ove stanno alcuni greci che nelle loro botteghe tengono di tutto, dalle sardine alle scarpe; il vice-consolato di Francia che occupa una delle più belle case, e una massa di capanne rettangolari ove abitano gli indigeni sempre poveri, ed una massa di donne abissinesi che superbe della loro bellezza vengono qui a sciuparla facendone vilissimo mercato.
Una via a Massaua
Abbiamo così attraversata l'isola nella sua lunghezza; proseguiamo sulla diga, e appena messo piede in Tau-el-hud vedremo la palazzina del governatore generale, l'ufficio telegrafico, una moschea, il pozzo dove giunge l'acqua portatavi con canali dalla montagna, e attorno al quale formicolano centinaia di ragazzi e ragazze che empiono le loro otri o le loro pelli, se le caricano sulla testa, sul dorso o sui somarelli, e per pochi quattrini le trasportano in città: qualche baraccone in cui dormono i soldati, un forte degno dei suoi difensori, poi l'altra diga che ci porta a terra ferma nella direzione di Omcullo, dove passeremo facendo qualche altra escursione.
A questa originalità dell'ambiente aggiungiamo la novità in tutto, persino nell'atmosfera, la varietà dei tipi, il carattere simpatico di questa gente primitiva, e respiriamo i profumi delicati che spesso escono dai negozii, in cui i proprietarii accovacciati a contare i chicchi del rosario aspettando gli avventori, cercano adescarli facendo evaporare del muschio o bruciando dell'incenso sulla soglia della loro porta.
Al tramonto tutto muore, che gran parte della popolazione si reca ad un villaggio circa un'ora dalla città per passarvi la notte che si pretende meno calda, ed allora nei bazar sono disposte sentinelle ad ogni trenta o quaranta passi perchè possano farsi la guardia fra loro; che se qualche volta vi fu rubato, lo fu con tutta sicurezza, perchè il ladro non temeva chi doveva scoprirlo. Questi soldati che montano la guardia hanno veramente l'aspetto di pezzenti, e se ne stanno in fazione fumando tranquillamente, portando seco un vaso d'acqua per bere, e alle volte persino un angareb per sdraiarvisi comodamente o farvi sedere chi vuole alleviare le noie della solitudine. La sola cosa che hanno di pulito è il fucile che tengono però sempre avvolto in cenci dove lo impugnano per non arrugginirlo.
Massaua è l'antica Sebastrium-os, e fu molto fiorente, concorrendovi i prodotti dell'India e dell'Etiopia che qui si riunivano per scambiarsi, e per riprendere poi vie diverse.
Ora non conta più di 6000 abitanti, e vi si fa poco commercio, chè l'Etiopia è ben lungi dall'essere quella d'una volta; d'altra parte il Governo egiziano cerca con ogni modo di impedire lo sviluppo dell'interno, essendo geloso e nemico dell'Abissinia. Si importa qualche poco di tessuti, filati, commestibili, e si esportano pelli, cera, avorio, zibetto, poco grano, burro, madreperla, gomma, caffè, prodotti tutti che provengono con carovane dall'altipiano etiopico, e bene spesso molto dall'interno.
Il commercio di esportazione deve subire un notevole aumento in questo porto, ora che re Giovanni, per obbligare i commercianti a percorrere maggior cammino nei suoi territorii, e nella speranza forse che Massaua per conquista o per cessione diventi parte del suo Stato, ha proibito alle carovane che partono dal Goggiam e dal Gondar di prendere la via del Galabat e Suakim, molto più conveniente, perchè piana e battuta da camelli, di gran lunga preferibili ai muli.
Fra i mille gridi che continuamente facevano vibrare l'atmosfera, uno fortissimo e continuato, misto di voci e suoni, ci deliziò tutta una giornata, gran parte della notte e riprese con maggiore intensità il giorno appresso: ce ne facemmo guida, ma ci fu impedito entrare nel tugurio da dove usciva; ma mentre ce ne stavamo ritornando soffocando il nostro sentimento di curiosità, per mezzo di un nostro servo abissinese potemmo esservi ammessi. Entrammo in una capanna costrutta con una intelaiatura di pali ricoperti da sdruscite stuoie; le pareti verticali, il tetto curvo: in un angolo due angareb con sedutevi otto donne nere, giovani avvolte in una specie di manto di tela bianca con braccialetti in argento e conterie, collane, anelli al naso, agli orecchi e alle dita, tali da coprirle quasi fino all'unghia tinta in rosso. Accovacciata per terra stava una povera giovane malata, pure avvolta in panni bianchi, col volto mesto e sofferente: ai suoi lati due giovani battevano su rozzi tamburi mentre tutte le donne sedute cantavano a squarciagola una cantilena cadenzata, interrotta di quando in quando da un acutissimo trillo, e il pubblico composto d'una ventina d'altre persone accompagnava con un regolare batter di mani: di tempo in tempo si versavano olii profumati sul fronte della paziente o su un braciere che le stava dinanzi e con una tela si faceva baldacchino perchè i fumi profumati che ne esalavano non si perdessero nell'ambiente, ma si conservassero ad involgere l'ammalata: la semi-oscurità dava maggior carattere a questa scena originale e selvaggia, che si faceva per spaventare e cacciare il diavolo della malattia che aveva invaso quella povera disgraziata, che non so come resistesse a tanto fracasso infernale. Ci dissero poi che se l'ammalata si illude di star meglio, tutto d'un tratto s'alza e principia a ballare freneticamente: