Forse che sì forse che no. Gabriele D'Annunzio
i Latini rimemoravano il sogno del Nibbio che visitò in culla il novo Dedalo creatore d'imagini e di macchine, il Prometeo senza supplizio, colui ch'ebbe in sé «la radice e il fiore della volontà perfetta»; e quella culla era ardua come il nido stesso del desiderio sovrumano sospeso nell'Ignoto. E riapparivano per baleni di gloria, su piani su colli su laghi d'Italia bella, altre ali d'uomo invermigliate di sangue temerario, rotte come le ossa, lacere come la carne, immote come la morte, immortali come nell'animo l'avidità del volo.
Un Barbaro della Magna aveva osato interrogare l'ombra marina d'Icaro, aveva anch'egli dato alle vermene del vinco la curvatura della vita, aveva coperto l'armatura lieve d'un tessuto più lieve, aveva studiato il vento e ascoltato la parola del Precursore intorno al congegno: «Non gli manca se non l'anima dell'uccello, la quale anima bisogna che sia contraffatta dall'anima dell'omo». Ben egli l'aveva contraffatta librandosi nell'aria con la sua sola forza vigile, volando ogni giorno più a lungo, ogni giorno più in alto, precipitando infine e stampando nell'aspro suolo germanico l'impronta del suo cadavere come l'Ateniese aveva legato all'azzurro dell'onda ellenica il fiore del suo nome.
Discepoli eran sorti, avevan raccolto il rottame, avevan ricostruito e raddoppiato il congegno; avevan celato la loro favola in lande solitarie, in contrade di sabbie e di tumuli; avevano ancor macchiato di vermiglio le verghe connesse e la tela tesa. Alla vasta brezza costante dell'Atlantico, non al chiaro ponente meridiano del Mediterraneo, s'era rialzata e aggrandita la speranza della vittoria sul cielo cavo! In un rigido mattino d'inverno, sopra dune ignude in vista d'una baia aperta verso l'Oceano, s'era alfine compiuto il prodigio. Due fratelli silenziosi, figli del placido Ohio, infaticabili nel provare e nel riprovare, per spingere la macchina alata avevano aggiunto la forza di due eliche all'ostinazione dei due cuori.
Ora i Latini venivano alla riscossa. Il nuovo strumento pareva esaltare l'uomo sopra il suo fato, dotarlo non soltanto d'un nuovo dominio ma d'un sesto senso. Come il veicolo fulmineo di ferro e di fuoco aveva divorato il tempo e lo spazio, l'ordigno dedàleo trionfava d'entrambi e del peso. A uno a uno la Natura aboliva i suoi divieti. Contro la maschera velata del mistero brillava il viso diamantino del rischio. Il dèmone della gara traeva il combattente sul margine dei più voraci abissi. La morte era una Circe conversa, donna solare che trasfigurava i bruti in eroi con l'ebrezza dei suoi beveraggi. Come quando tutta l'Ellade si moveva per la corona d'oleastro, l'Estate ridiveniva sacra agli agonisti. L'inno aveva principio in ogni grido di moltitudine ma il croscio della celerità lo mozzava alla prima sillaba.
L'uomo fu pronto a lottar contro il vento e contro l'emulo nell'aria, non più col disco di bronzo ma con l'ala di canape. Il cielo incurvato su la pianura fu un immenso stadio azzurro, chiuso dalle nubi dai monti dai boschi. La folla trasse allo spettacolo come a un'assunzione della sua specie. Il periglio sembrò l'asse della vita sublime. Tutte le fronti dovettero alzarsi.
Il concorso era come a una dieta di guerra. Il luogo aveva l'aspetto dell'arsenale e della cittadella. In lungo ordine le tettoie di travi e di tavole a doppio pendio davano imagine di quelle usate un tempo a ricovero di galere disarmate o racconce. In cima ai pennoni, in cima alle alte mète piramidali, in cima alle torri di vedetta le bandiere e le fiamme multicolori sventolavano come nelle pavesate di gala. E, come gli antichi pavesi delle fanterie di comune, le fronti delle coperture erano dipinte gioiosamente: coi colori delle nazioni, con gli emblemi delle officine, coi nomi dei timonieri celesti.
Imagine di eternità incontro a quell'apparato precario, forma di perfetta bellezza sopra quelle linee senz'arte, fra tutto quel legno polito materia insigne colorata dai segreti dei secoli e dagli spiriti della terra, nel mezzo del campo sorgeva alla sommità d'una colonna romana la statua della Vittoria. Liberata dal carcere astruso, fuor del triste museo ingombro di are di plinti e di anfore discesa pei deserti gradi di pietra invasi dall'erba, era venuta non con la sua quadriga trionfale ma con un carro rustico, col plaustro dei coloni di Roma, tratto da sei duri buoi lombardi per la strada che conduce al contado di Vergilio. Le aveva fatto corteggio il popolo prode. Impósta al capitello corinzio involto di acanti corrosi, ora viveva nel cielo come quando il giovanissimo capo e l'omero potente e l'apice dell'ala aquilina coronavano il fastigio del tempio eretto a piè del Cidneo da Flavio Vespasiano fondatore di anfiteatri. Verde come la fronda del lauro, glauca come la foglia dell'oleastro, su la svelta colonna dalle scannellature cupe ella perpetuava il gesto misterioso con le mani dalle dita tronche ove ancor lucevano le tracce dell'oro cesàreo.
Non la riconobbero i nuovi agonisti, non la venerarono; ma la temettero come un ostacolo da evitare. Ognun di loro non aveva occhi se non per l'asta attrezzata dei segnali e per gli indizii dei vessilli.
— Che dice il segnale del vento? — domandò Paolo Tarsis chino presso la sua macchina a esaminare la tensione dei fili d'acciaio, mentre il capo dei suoi meccanici finiva d'intonare il motore ed egli prestava l'orecchio acutissimo alla settupla consonanza.
— Più di dieci metri al secondo — rispose Giulio Cambiaso scorgendo su la tabella del semaforo il disco bianco accanto al quadro nero e al rosso. — Non si vola.
S'udiva il clamore della folla impaziente di là dagli steccati.
— Tentiamo? — disse Paolo Tarsis.
E venne al limitare della tettoia; guardò la palpitazione delle fiamme in cima delle aste, scrutò lo spazio con l'occhio del cacciatore e del marinaio. Soffiava su la brughiera un vento fresco di tra ponente e ostro, in un cielo grandioso come quei cieli di battaglie navali dove le forme delle nuvole sono eroiche al pari delle prue e degli stendardi. Sotto gli enormi cumuli raggianti s'incupiva l'azzurro dei monti verso il Garda, in fondo i poggi leni imitavano il lineamento del mare, s'inargentava la cortina interminabile dei pioppi al limite della campagna di Ghedi. La vastità dell'aria era deserta e muta, non interrotta né da un volo né da un richiamo d'uccelli. Attendeva l'uomo.
— Il vento sta per cedere — disse Paolo. — Tenterò oggi di battere Edgard Howland nella durata, nella velocità e nell'altezza.
— Anch'io — disse Giulio Cambiaso.
Si guardarono negli occhi leali sorridendo, emuli e fratelli. La loro fraternità vigeva già dalla prima giovinezza, nata sul ponte d'una nave da guerra, nei primi anni del servizio, quando a ogni primavera credevano essi venuto alfine il tempo di puntare i cannoni delle torri corazzate contro un bersaglio che non fosse quello delle gare di tiro nella rada di Gaeta. S'era cementata nell'inferno dei battelli sottomarini, entro il chiuso scafo ove non è per l'uomo altro posto che il posto di manovra o di combattimento, tra i fumi dell'olio bruciato, tra i vapori della benzina, tra i miscugli d'idrogeno e d'ossigeno svolti dagli accumulatori elettrici, nel pericolo assiduo dello scoppio, nella tenebra improvvisa causata dal corto circuito, nella lotta costante dell'attenzione contro il tossico sonnifero dell'anidride carbonica, nel silenzio sostenuto per ore lunghe come giorni con l'occhio fiso ai quadranti indicatori, con l'orecchio teso al linguaggio metallico degli apparecchi di misura e di governo. Ben quivi entrambi avevano cominciato ad acquistare il senso della terza dimensione manovrando i timoni orizzontali e correggendo per innumerevoli esperienze l'instabilità nel verso dell'asse, che a ogni più lieve causa drizza lo scafo per prua fuori dell'acqua o lo piega a dar di becco nel fondo.
Insofferenti di disciplina esterna, aspiranti a un'azione più libera, insieme avevano rinunziato il servizio. Insieme avevano intrapreso un lungo viaggio di anni nell'Estremo Oriente, attraversato la Corea, la China, la Mongolia, girando la Muraglia, ascendendo monti, risalendo fiumi, valicando steppe, soggiornando alla ventura nelle città dell'interno e della costa; poi per le Filippine, per l'arcipelago di Sulu, per l'Australia compiuto il periplo delle isole nello stretto di Torres studiando gli Aborigeni; poi per la Tasmania, per l'India, per l'Arabia, raggiunto l'Egitto. Avevano domandato all'animo e al corpo tutto quel che potevano dare e oltre: la risolutezza era divenuta in entrambi un istinto servito dalla rapidità del pensiero; la resistenza era divenuta come l'osso del dorso. Avevano fatto la pelle al freddo e al caldo, usando abiti leggeri tanto sopra le aspre nevi coreane quanto sotto le fiamme tropicali di Mindanao. Avevano sopportato quattro giorni di digiuno con un cammino quatriduano di cento trenta miglia nell'Altai deserto; percorso in trentadue ore circa ottanta miglia a piedi, nell'isola di Negros, per raggiungere in tempo su la costa una lancia spagnuola che, partita, non sarebbe tornata se non dopo un mese e mezzo. Avevano