Forse che sì forse che no. Gabriele D'Annunzio

Forse che sì forse che no - Gabriele D'Annunzio


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così per settimane senza stancarsi. D'avventura in avventura, di lotta in lotta, avevano acquistato la destrezza che moltiplica le forze con la sagacia nell'adoperarle, soccorsa dalla scienza anatomica del corpo animale nell'assestare i colpi. Uno di loro in un tempio indico aveva potuto alzare una gravissima pietra, sol per un certo suo modo di equilibrarla. Il medesimo aveva reso le sue mani tanto pieghevoli che, essendo incatenato in Luzon, era riuscito a farle scorrere per gli anelli di ferro; e tanto forti che la pressione delle dita poteva dare novantotto libbre inglesi nel misuratore e spezzare l'ulna più robusta.

       Ma quante volte, sazii di stampare la volontà e il calcagno su le dure vie terrestri, avevano risognato il sogno sottomarino, rivissuta la vita silenziosa nell'elemento profondo! Quante volte, dinanzi agli spettacoli più nuovi, avevano ripensato gli attimi incomparabili della manovra di battaglia: il battello emerso, lo scroscio dell'onda in coperta, lo strepito dei motori a scoppio e le sùbite vampe fra le pareti metalliche; poi la sola torricella di comando emersa e il dorso a fior d'acqua, in vedetta; poi emersa la sola sommità della torre coi suoi cristalli più alti, in agguato; poi tutto lo scafo immerso, con solo fuor d'acqua il lungo tubo del cleptoscopio armato del portentoso occhio vitreo; alfine, l'immersione totale, accertata la rotta, corretta la mira, pronto il siluro nella camera di prua; la corsa fatale nel silenzio subacqueo, il lancio segreto contro la carena gigantesca!

      Un giorno per caso, al Cairo, in vicinanza d'un ammazzatoio publico, s'erano abbattuti in un uomo singolare dal capo fasciato d'una benda leggera di lino; il quale teneva fissi al cielo fiammeggiante due occhi immuni dal barbaglio, quasi fossero forniti della terza pàlpebra, per osservare il volo dei corvi, dei nibbii e degli avvoltoi che roteavano a grande altezza. Era un augure forsennato? Era un ornitologo deliberato di rapire ai rapaci il segreto del volo senza remeggio. Si chiamava Léon Dorne.

      Per qualche tempo l'avevano avuto compagno sapiente e fervente della loro nuova ricerca. I due manovratori di battelli sommergibili avevan rivolto il senso statico delle tre dimensioni verso il cielo.

      — Alis non tarsis — diceva l'ornitologo implume, facendo il bisticcio sul cognome di Paolo.

      Posatoi rupestri del Mokattam, pregni di splendore come gli alabastri delle meschite, dove nel mattino gli avvoltoi fulvi s'indugiano al sole che dissecchi la rugiada su le lunghe remiganti disgiunte e curano i fusti teneri delle penne nascenti e a quando a quando starnazzano per esercitar le giunture e, nel sentire il soffio, di sùbito si gettano giù abbassandosi per un tratto di frombola senza batter l'ali e partono di primo volo e salgono al sommo e poi discendono col becco al vento e s'aggirano spiando tutta la contrada e si sospendono nell'aria immobili e poi risalgono e poi ridiscendono, senza mai batter l'ali! Specchi della Palude Mareotide, coperti d'ampie ninfee natanti che sorgono all'improvviso con uno strepito simile a quello dei cigni; e sono i pellicani dall'occhio scarlatto, i gravi pellicani dal sacco gutturale venato come le dàlie; e s'ode il lor grido rauco simile al raglio, e lo schiocco delle larghe palme che si posano su l'isolotto di melma, e di nuovo lo strepito più forte pel più alto volo quand'essi ripiegano il collo tra gli omeri come gli aironi e alzandosi contro il vento cangiano la gravità palustre nella più ardua grazia e non remano ma veleggiano sopra le nubi! Immense lande liquide dei Barari, folte di canne e di tamerici sul pattume salmastro, interrotte da cumuli di mattoni e di cocci che sono le ruine obliate delle città regie senza nome divenute nido innumerevole alle dinastie delle mèropi; ove su le grandi assemblee degli acquatici volteggia il grifone indagando le ripe se qualche carogna di bufalo vi approdi portato dai canali, mentre a quando a quando capovaccai e corvi trapassano in voli veementi con ombre di morte come tratti dalla fame sagace verso un campo ignoto di carneficina ai limiti del deserto! Passione del deserto, palpitazione visibile della vampa su l'aridità commossa, odore elettrico dello spazio in attesa, quando la grande aquila sola sui rossi torrioni del Khamsin valica in un attimo il campo del più pronto sguardo umano e col fato della turbinosa metropoli di sabbia e d'angoscia si dilegua per sempre!

      — Alis non tarsis.

      I due compagni avevano vissuto, lunghi e lunghi giorni, assorti in questi spettacoli e in un sogno d'avventure celesti. Tornati in patria, s'erano messi con ardentissima pazienza all'impresa. Da principio avevano costruito apparecchi semplici, veramente dedàlei, privi di forza motrice, simili a quelli usati dai primi esperimentatori nelle prime prove, non affidati se non alla resistenza dell'aria, non equilibrati se non dalle inclinazioni istintive del corpo sospeso; e, per addestrarsi al veleggio, avevano scelto nel Lazio il ripiano di Àrdea, la rupe di tufo tagliata ad arte, l'arce italica di Turno nomata dal nome dell'uccello altovolante. Qual posatoio più atto all'esperimento periglioso? Tutto esprime la forza e la grandezza nella muraglia della prisca città fondata da una schiera d'Argivi spinti alla spiaggia dal vento di mezzodì. La valle dell'Incastro è una conca piena del medesimo silenzio ch'empie i sepolcri cavi dei Rutuli primevi; la chiostra dei monti, dagli aricini ai lanuvini, dagli albani ai veliterni, è come un ciclo di miti impietrati; nell'epica luce sembrano vaporare gli spiriti delle stirpi; i massi squadrati hanno per eterno cemento la parola di Vergilio: et nunc magnum manet Ardea nomen.

      I due compagni avevano quivi sentito, meglio che in qualunque altro luogo della terra, come la morte sia un'operaia gioiosa.

       Dopo prove e riprove, avevano compiuta una macchina leggera e potente la cui ombra somigliava l'ombra dell'airone. E le era rimasto il bel nome italico: Àrdea; e nel nome il proposito di volare sopra la nube.

      Quella e un'altra eguale fremevano ora sotto le tettoie attigue aspettando la volontà conduttrice.

      — Bisogna partire prima che il campo di slancio sia invaso dal pollame — disse Paolo Tarsis, alludendo ai molti trabìccoli strepitosi che non riescivano mai a distaccarsi dal suolo.

      — Sai — disse Giulio Cambiaso ridendo — sai che perfino il re negro dei pugilatori Sam Mac Vea si propone di volare?

      — E il fantino O'Neil.

      — E il maratoneta Shrubb.

      — E il ciclista Mazan.

      — E il nuotatore Geo Read.

      — E il pattinatore De Koning.

      — E il giocatore di pelota basca Chiquito de Cambo!

      Risero di quel forte riso unanime che tante volte aveva rallegrato le soste all'addiaccio o sotto la tenda, di quel riso ch'essi non ridevano con altri, essendo un modo della loro concordanza, una espressione duale della fierezza sprezzante ond'essi giudicavano gli eventi e gli uomini. Era già vivace in loro il sentimento sdegnoso della piccola aristocrazia che s'andava formando dall'accozzaglia della novissima gente volatrice.

      — Hai veduto l'ornitoptero di Adolfo Pado?

      — E il multiplano di Guido Longhi?

      Le tettoie nuove, dalle fronti dipinte alla maniera degli antichi pavesi, custodivano i più diversi mostri artificiati con le materie più diverse, coi più diversi ingegni. Per mezzo alle ampie tende di tela agitate dal turbine delle eliche in prova, apparivano a quando a quando le strane forme delle chimere senza bellezza e senza virtù partorite dalla manìa pertinace o dalla presunzione ignara, condannate irremissibilmente a sollevare la polvere e ad arare il suolo: ali ricurve e aguzze costrette al remeggio con uno stridore di usci in càrdini rugginosi; adunazioni di celle quadrangolari, simili a mucchi di scatole senza fondo; lievi scafi oppressi da impalcature sovrapposte, simili a fragili canghe; alberi giranti forniti d'una sorta di cilindri cavi come i burattelli di stamigna nei frulloni dei fornai; lunghi fusi ferrei con un gran cerchio a ogni estremità, fatto di cotonina imbullettata su stecche, a simiglianza della ruota a pale nel mulino natante; congegnature di aste e di vèntole in guisa di quegli arnesi mobili che servono a ventilare le stanze nelle colonie torride; difficilissimi intrichi di sartie, di traverse, di longherine, di tubi, di stanghe, di spranghe; tutte le composizioni del legno, del metallo, del tessuto intese all'impossibile volo.

      E ciascuna macchina aveva in sé il suo fabro come il ragnatelo ha il suo ragno, indissolubile. Sotto sopra le ali, tra due serbatoi a forma di obice, dietro l'elica solitaria, addosso all'alveare del radiatore, ora coperto ora scoperto, ora dominato ora dominante, l'uomo era prigione del mostro da lui partorito. Taluno col gesto perpetuo dei dementi manovrava una leva, volgendosi


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