Fiore di leggende. Anonymous

Fiore di leggende - Anonymous


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sia cosa che questo cantare sia dei primi ch'io mai mettessi in rima, però vo' far perfetto incominciare, e ritornare al buon detto di prima, sicch'a costor, che mi stanno a ascoltare, piaccia e diletti dal piede alla cima: però averete ad ascoltar memoria ch'io vi farò d'una romana storia.

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      Nella cittá di Roma anticamente aveva una colonna in Campidoglio, che v'era scritto ogni uom prode e valente, saggio e cortese, come legger soglio; sicché, tornando brieve a convenente, d'un franco cavalier contar vi voglio, che fu figliolo di messer Lione, signor del Patrimonio per ragione.

      4

      Quando messer Lion venne alla morte, chiamò i suo' tre figliuoli a capo chino, e al maggior, che dovea regger la corte, raccomandò quel ch'era piú fantino, e questo fu che poi fu tanto forte, che si chiamava "lo bel Gherardino": dicendo:—Gherardin ti raccomando,— passò di questa vita lagrimando.

      5

      Dopo la morte di questo signore rimason tre fratei co' molto avere, e il piú cortese di lor fu il minore, che sempre corte volle mantenere; e gli fratelli n'avien gran dolore, perché facealo contra al lor volere; e' gli assegnaron parte del tesoro. E' fu contento, e partissi da loro.

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      Se prima tenne corte co' fratelli, poi la tenne maggior sette cotanti, con bracchi e veltri e virtudosi uccelli, palafreni e destrier co' molti fanti, sempre vestendo di molti donzelli, cavalier convitando e mercatanti; sicché per Roma e per ciascun cammino si ragionava del Bel Gherardino.

      7

      Oltra misura fu tanto cortese, che poco tempo la poté durare, e la sua povertá fu sí palese, che gli sergienti incominciò a cacciare; e, non avendo di che fa' le spese, senza cavallo non sapeva stare. E gli frategli né nissun parente di lui non ne voleano udir niente.

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      Bel Gherardin, che suo vita procura, di doglia e di vergogna si moria; ma pensossi d'andare alla ventura sol per escir di tal malinconia. Ed un donzel, ch'amava oltra misura, chiamò segretamente, e sí dicia: —Or vuo' tu venir meco, Marco Bello, ed io ti tratterò come fratello?—

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      E Marco Bello neente gli disdisse per la voglia ch'avíe di lui servire; ed al presente gli rispuose e disse: —Io vo' con teco vivere e morire.— E innanzi che di Roma e' si partisse a creatura nol fece a sentire: 'nsu n'un ronzino, ciascheduno armato, di Roma si partiron di celato.

      10

      E, cavalcando tutti traspensati, piú e piú giorni sanza dimorare, fûr una notte in un luogo arrivati, che non v'aveva casa ove albergare. E senza cena, la notte, affannati, non ristetton per ciò di cavalcare. E quando apparve l'alba de lo giorno, e Marco Bello si guardò d'intorno.

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      E, ragguardando per quella pianura, di lunga vide un nobile castello, ch'era cerchiato d'altissime mura. Al mondo non aveva un par di quello; non poria cantar lingua né scrittura d'esso, quant'era fortissimo e bello. E dentro sí vi aveva un bel palagio. E cavalcaron lá per prender agio.

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      Ma, quando furon giunti in quella parte, davanti a Gherardin venne un serpente; e uno grande orso (ciò dicon le carte) assalí Marco Bel subitamente: tali eran fatti star solo per arte, uomini solean esser primamente; e cosí gli assaliron su la strada, onde ciascun cacciò mano alla spada.

      13

      E lo serpente, per l'aria volando, davanti a Gherardin trasse a ferire; e Gherardin si difendea col brando, però che sapea ben dello schermire; dicendo:—Iddio, a te mi raccomando: non mi lasciar cosí impedimentire!— però che unque 'l serpente lo toccava coll'ale, tutte l'arme gli tagliava.

      14

      A Gherardin ne paria molto male che lo serpente gli facia tal guerra: ficcò la spada nel mezzo dell'ale, davagli un colpo, se 'l cantar non erra, che fu per lui sí pessimo e mortale, che di presente cadde morto in terra; e, nel cader che fe', misse gran guai, e disparí che non si vidde mai.

      15

      Morto il serpente, e Gherardin provide a Marco Bel, che combattea coll'orso, gridando a voce:—L'orso mi conquide, se da te, Gherardin, non hoe soccorso.— E Gherardin, che suo fatto ben vide, sprona il ronzino e inver' di lui fu corso; e, come l'orso lo vidde venire, Marco lascioe, e lui trasse a ferire.

      16

      Uno animal cosí feroce e visto, che non si vidde mai tra l'altre fiere, che colla branca quel ronzin fe' tristo, che morto cadde sotto al cavaliere. Gherardin chiama forte:—Iesú Cristo, ora m'aiuta, che mi fae mestiere!— E da Marco non potea avere aiuto, però che avea ogni valor perduto.

      17

      E Gherardin si levò prestamente: colla sua spada giá non fece resta, e ferí l'orso nequitosamente: davali un colpo di sopra la testa, che lo fendeva infino al bianco dente; e Marco Bel di ciò facea gran festa! E, nel cader, disse l'orso:—Donzello, tu hai morto il signor d'esto castello!—

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      E Gherardin, ch'avea la bestia morta, maravigliossi che l'udí parlare: nella sua mente tutto si conforta. A quel palagio presono ad andare; e, quando fûrno giunti a quella porta, e Marco Bello incominciò a picchiare, la porta fue aperta immantanente: ma chi l'aperse non videro neente.

      19

      Dismontarono e fûr sopra alla scala

       que' che l'un l'altro ma' non abandona.

       E, quando fûrno giunti in su la sala,

       non vi trovâr né bestia né persona.

       In quello tempo lo freddo non cala.

       Uno con l'altro insieme si ragiona.

       Per tal maniera dimorando un poco,

       ad un cammin vidon racceso un fuoco.

      20

      Sicché ciascun si facea maraviglia; ché chi 'l facesse non potien vedere. Guardandosi d'intorno a basse ciglia, per iscaldarsi andarono a sedere. Fra loro insieme ciaschedun pispiglia: —Se da mangiare avessimo e da bere, avventurati sarem sette tanti piú che non fûrno i cavalieri erranti!—

      21

      Benché persona non vi si vedesse, ciò che dicien fra lor erano intesi; e tavole imbastite furon messe, fornite ben di molti belli arnesi: ceri e lumiere v'eran molte e spesse; e que' baroni per le man fûr presi. Quando a tavola furono i baroni, recate fûr di molte imbandigioni.

      22

      Molto fûr ben serviti a quella cena, ma non vedien sergenti né scudieri; e poi, istando in cosí fatta mena, avevan sopra ciò molti pensieri; onde ciascun di lor ne stava in pena, e quasi non mangiavan volentieri. E, quando ebben cenato, e' ritornarono al fuoco, donde prima si levarono.

      23

      Quando fu tempo d'andare a dormire, in bella zambra ciascun fu menato, e a uno bel letto, ch'io nol potrei dire. Bel Gherardin vi si fu coricato, ed una damigella, a lo ver dire, si fue spogliata di presente a lato, dicendo:—Non aver di me spavento, ch'io son colei che ti farò contento.—

      24

      E Gherardin, che le parole intese, rassicurato fu co' lei nel letto; e la donzella fra le braccia prese, che di bellezze non avea difetto; e sopra il bianco petto si distese, baciando l'un l'altro con gran diletto. E, s'egli è vero quel che il cantar mostra, piú e piú volte d'amor feciono giostra.

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      Signor', sacciate che questa donzella si faceva chiamar la "Fata bianca", e mantenea cittadi e castella con molta quantitá, se il dir non manca. Del serpente e dell'orso era sorella: delle sette arti vertudiosa e franca, contrafatti per arte gli fea stare, per poter meglio il suo signoreggiare.

      26

      Quando ebbono assaggiato il dolce pome, avendo l'uno l'altro al suo dimino, la Fata bianca il domandò del nome, e egli rispuose:—Lo


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