Ricordi del 1870-71. Edmondo De Amicis
chiesuole, ai tabernacoli, ai muri scarabocchiati col carbone; girava tratto tratto uno sguardo sulla campagna dai punti più alti; per tutto era quiete e silenzio. Incontrò qualche povero, inciampò in una vecchia addormentata sullo scalino di una porta, arrivò a San Domenico, e su, per la strada più corta.
Per tutta la salita non si voltò mai a guardar Firenze. Non voleva sciuparsi l’effetto del colpo d’occhio più bello da godersi lassù, dinanzi al convento. — Poichè è l’ultima volta che la vedo, — pensava, — la voglio veder bene, tutt’a un tratto, come al cader di un velo. E faceva tra sè quei ragionamenti fanciulleschi che si fanno in tali occasioni, quasi per darsi un’illusione di sorpresa: Cosa si vede di lassù? Che città c’è nel piano? Dove sono? Dove vado?
Arrivato in cima, accanto al muricciolo, prese fiato, e poi si voltò tutto a un tratto verso Firenze.
Lo spettacolo quel giorno era più stupendo che mai. Il cielo lucido e quieto di una pace allegra; una striscia di nuvole color d’arancio all’orizzonte; il resto puro; le cime delle colline lontane pareva che fendessero l’azzurro; una freschezza primaverile spirava nell’aria. Sotto, tutto quel saliscendi di poggi e di vallette, simile a un solo immenso prato depresso qua e là, lievemente, come dal premere d’una mano carezzevole, mossa da una fantasia capricciosa; tutto un verde leggiero, variato sui punti eminenti dal verde cupo dei cipressi, disposti a file e a corone; interrotto da prati fioriti; listato di strade, di viali, di sentieri bianchi, che s’incrociano, si inerpicano sulle cime, precipitano dal lato opposto, e spariscono e riappariscono in distanza; casette, gruppi di case, ville su tutti i rialzi, nette, spiccate, che par che i colli le buttino innanzi per porgerle; oltre la città un vastissimo piano, coperto d’una nebbia leggiera, traverso alla quale biancheggiano le case lontane, come vele sul mare; e su tutta questa sterminata corona di colli, di villaggi, di ville, di giardini, ogni cosa che par che guardi a Firenze, e voglia scendere e precipitarle nel seno; l’ossatura d’una città immensa che non si può traveder compiuta senza un senso di spavento; uno spettacolo pieno di bellezza che fa pensare, e di maestà che sorride.
— Mah! — esclamò il giovane con un sospiro, sedendosi sul muricciuolo colle spalle volte a Firenze, per raccoglier meglio i suoi pensieri; è pure una dura legge che, quando s’abbandona una città, oltre al dispiacere di separarsi dagli amici e di rompere molte abitudini che erano diventate care, uno si debba accorgere che vi sono ancora da sciogliere altri legami; dei legami che lo tengono attaccato ai muri delle case, ai piedestalli delle statue e agli alberi dei viali.... Cinque anni! Mi par d’essere arrivato a Firenze ieri. Era una brutta giornata, nevicava, non c’era anima viva per le strade. Mi parve una città malinconica. Uscito appena dalla stazione, infilai via dei Panzani; diedi un’occhiata, passando, a via Tornabuoni: con quelle case di colore scuro mi fece l’effetto d’una strada tetra; andai oltre, vidi il Duomo, mi affacciai a via dei Servi: mi parve un corridoio di convento; tirai innanzi fino a via San Sebastiano: peggio. Mi sentivo soffocare in quelle stradette, mi pareva che vi mancasse l’aria e la luce; m’uggivano tutte quelle casuccie, addossate le une all’altre, strette come persone che si pigino, con quelle porticine che paion buche; una casa alta come una torre, una bassa come una capanna, una grossa, una mingherlina, una avanti, una indietro, tutte di sghimbescio, come buttate là a caso..... Piovve per molti giorni. Io stavo in via Pietra Piana, verso la porta, e passavo dell’ore alla finestra, guardando nella strada, solo e pensieroso. Ad ogni sbatter di porta, la casa tremava tutta come se volesse cadere. — Ci restassi sotto! — dicevo — tanto ho da crepare di malinconia....
Poi venne il bel tempo, e col bel tempo l’umore allegro.
Passarono tre o quattro mesi.
Un bel giorno osservai che per andare da casa all’ufficio ero passato ogni mattina per la stessa via; mi meravigliai di non aver pensato a prenderne un’altra, me ne domandai la ragione. — Forse, dissi tra me, è l’effetto di quella tal casa che vedo di scorcio sulla cantonata, appena son fuori della porta. Sarà fors’anco la chiesa che c’è di rimpetto. O son le finestre del palazzo accanto a casa mia, che guardo sempre. O i bassorilievi del palazzo più piccolo ch’è vicino alla chiesa. O sono tutte queste cose insieme. — Poi, fermandomi in mezzo a una piazza, mi venne fatto di domandarmi che cosa fosse che mi tratteneva, in quel certo punto e in quel certo modo, coll’aria e col sentimento di chi sta in casa sua; perchè mi pigliasse la voglia di appoggiare le spalle al muro e di finire il mio sigaro in pace; come non mi potessi trattenere dal chiamar gli amici che passavano, e attaccar discorso, e far crocchio, e sciupare in chiacchiere una mezz’ora. Cercai di spiegare a me stesso il perchè avessi contratto l’abitudine di rallentare il passo a quella tal svoltata, di guardare intorno su quel tal crocicchio, di andar oltre col viso in aria.....
Una mattina mi accorsi con sorpresa di avere nel capo, distinte una ad una, le immagini d’una cinquantina di case di strade diverse, delle quali avrei saputo dire, senza rischio di sbagliare, il colore della facciata, la forma delle finestre, il disegno degli ornati. Guardai meglio quelle case, ripassandoci davanti; e più le guardavo, più mi pareva che avessero tutte un’aria propria, che so io? un significato, un qualcosa che mi faceva pensare. L’una sentivo che l’avrei scelta di preferenza per invitarvi degli amici a cena, e menarvi una vita allegra: mi pareva che sorridesse. In un’altra ci sarei stato più volentieri a studiare, solo, raccolto, con una gran biblioteca: aveva un aspetto grave. In una terza pensavo che non ci si potesse vivere che facendo all’amore: tanto aveva le forme snelle e la tinta gentile. Gli architetti di quelle case bisognava che fossero giovani simpatici; dovevano aver voluto dir tutti qualche cosa con quei disegni; s’erano fatti tutti capire. Man mano che passavo per quelle vie, mi si affollavano alla memoria versi, scene di romanzo, episodi storici, ariette d’opera. E alzando gli occhi ai palazzi, alle torri, ai campanili, agli archi grandiosi, mi cominciava a parere strano che, in luogo d’ispirare quell’ammirazione subitanea e profonda, mista quasi ad un senso di terrore, che sogliono ispirare i monumenti giganteschi, costringessero invece, quando si voleva esprimere con parole l’effetto delle loro bellezze, a servirsi degli aggettivi stessi che s’usano per designare un bel fanciullo, un bel fiore, un bel ninnolo, come: — Gentile, carino. Guardando quelle torri, quei palazzi, sorprendevo spesso in me medesimo uno stranissimo desiderio, come di fare scorrere la mano su quei contorni, di palpare quei rilievi; e con questo desiderio, una specie di sollecitudine gelosa per quelle moli enormi di pietra, come se temessi che la menoma forza le potesse offendere e sciupare; e con questa sollecitudine, un bisogno vivo e continuo di correrle e di ricorrerle con quello sguardo d’amante che avvolge, e striscia, e lambe, e si stanca sulle forme care.
— Ma queste linee si muovono, — esclamavo tra me — v’è qualche cosa che si stacca e va su; c’è della vita in quelle forme! — Cominciai a capire certi amori ardenti per le glorie artistiche del proprio paese, e mi compiacqui nel sorprendere sul viso degli stranieri, che si fermavano sulla piazza, la prima espressione della meraviglia e del diletto. Presi l’uso di passare e di fermarmi tutti i giorni, a quell’ora, in quei luoghi. Mi accorsi che ogni giorno quella contemplazione di pochi istanti mi metteva in un corso d’idee alte e belle; sentii poi che la facoltà di quella maniera di diletto si rafforzava e s’estendeva ad altre forme dell’arte; che quel gusto del semplice e del grande s’insinuava anche un po’ nel sentimento e nel giudizio mio riguardo a cose che coll’arte non avevan che vedere, a fatti, a persone, a costumi; mi parve d’essere riuscito, per effetto di quel culto gentile, a domare certi moti impetuosi e quasi selvaggi dell’animo mio, a dare alla mia indole un che di più liscio e di più morbido, a migliorarmi in qualche cosa. Per questo presi ad amare quelle linee, quelle forme, quei colori; e non mi pareva più pazzo il Pieruccio dell’Assedio di Firenze che, povero e abbandonato, trova ancora un palpito di gioia segreta, sollevando gli occhi pieni di lacrime ai monumenti della sua cara città natale....
Questo seguì a me ed a molti. Ma per chi sia venuto qui nel fiore della giovinezza, con quell’irresistibile bisogno di aprire il proprio cuore e di gridare: — Guardate! — che ci assale appunto negli anni in cui si comincia a esser uomini e si è tuttavia un po’ fanciulli; — per chi sia venuto qui coll’intima coscienza di esser atto a qualcosa, senza saper che, nè come, nè quando; con un presentimento confuso, con un desiderio inquieto, con quella forza dentro che s’agita, e tenta e non rinviene l’uscita; per chi, essendo venuto