Ricordi del 1870-71. Edmondo De Amicis

Ricordi del 1870-71 - Edmondo De Amicis


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oggi le nostre speranze stanno tutte nella generazione che si avanza incalzante sui nostri passi, perlochè universale è il desiderio, universale il proposito che essa sia apparecchiata a fecondare i germi sparsi arditamente da pochi della impreparata generazione cui noi apparteniamo.

      »Per questo sono qui convenuti magistrati e cittadini a dimostrare agli insegnanti in qual pregio si abbiano le benefiche loro fatiche, ai discepoli quanto sia rispetto ad essi la pubblica aspettazione; per questo non lamentano i contribuenti le maggiori spese del Comune per migliorare le scuole ed accrescerle; per questo mai ci fa difetto l’aiuto largo, volenteroso, efficace di signore e di cittadini, sia per vigilar le scuole, sia per presiedere agli esami ed ai concorsi, sia per istudiar provvedimenti e riforme; per questo cresce rapidamente il numero degli alunni, i quali nelle scuole elementari sono in quest’anno 2212 più che nel precedente; nè bastano le scuole ad accogliere quanti vorrebbero esservi ammessi, sebbene alle 138 classi che si avevano nello scorso anno ne sieno state aggiunte 25, e da 180 sia salito a 211 il numero degli insegnanti. E se malgrado il numero maggiore degli scolari è minore in quest’anno il numero dei premi, non ne traggano argomento di sconforto nè i maestri nè i discepoli; serva anzi ad essi d’incitamento questo che è segno ed effetto della importanza sempre maggiore attribuita al buono e rigido governo della pubblica istruzione.

      »Nell’ordinamento della quale molto ancora rimane da riformare e da fare per isfuggire il pericolo di ricoprir talvolta sol con orpello la nudità dell’ignoranza, e perchè in un col numero degli scolari cresca quello degli studiosi intenti ad arricchire di sana coltura la mente ed il cuore, a temperare fortemente il carattere, ad acquistare la consuetudine dello studio e del lavoro.

      »Nel dare oggi questi premi fatti più pregievoli dalla severa parsimonia adoperata nel conferirli, io m’indirizzo con pari effusione a tutti voi, o egregi e benemeriti insegnanti, o cari giovanetti: agli insegnanti con sentiti ringraziamenti, ai premiati perchè non si lascino addormentare dalla lode, agli altri perchè non sieno vinti dallo scoramento e dall’invidia; perchè incitamento alla virtù e allo studio sia a tutti il premio, agli uni per la soddisfazione di averlo conseguito, agli altri per il dolore di non averlo, per la brama di meritarlo nell’avvenire.

      »Le sorti avventurose della nostra patria condurranno parecchi di voi nell’alma città cui Firenze fu in ogni tempo figliuola amorosa e devota; e nel darvi con dolore un amorevole addio, mi è di conforto sperare che innanzi alla maestosa grandezza dei monumenti dei nostri maggiori, accesi viepiù d’amore alla patria, alla virtù, alla scienza, andrete progredendo negli studi in queste scuole iniziati, e serberete della città, dei maestri, dei condiscepoli quella ricordanza affettuosa e perenne, della quale per loro io vi prometto cordiale il ricambio.

      »E voi che qui rimanete abbiate ben in mente che mai ebbe Firenze maggior bisogno di cittadini savi ed operosi: contemplate l’antica e la nuova grandezza di questa città, che per farsi degna di ospitare l’Italia ed il suo Re, ruppe arditamente le sue mura, si distese fuori della vecchia cerchia di Arnolfo, provvide a necessità morali e materiali lungamente insoddisfatte, ed insieme alla reputazione ed al benessere dei suoi cittadini ne crebbe grandemente i doveri. Questi doveri voi li adempirete fin d’ora, o giovanetti, se vi saprete render capaci di accrescer più tardi, colla virtù e col lavoro della mente e delle braccia, le fonti della privata e della pubblica prosperità.»

      Terminato il discorso, che fu accolto con vivi applausi, furon distribuiti i premi agli alunni dell’istituto Ximeniano, del liceo dell’istituto fiorentino, dei ginnasi e delle scuole tecniche. Gli alunni furon chiamati uno per uno al cospetto del sindaco, che porgeva loro la medaglia, accompagnandola con qualche parola di lode. Venivano innanzi con passi tremanti, alcuni col volto un po’ pallido, altri suffusi di rossore, ma tutti cogli occhi scintillanti e colle labbra convulse; si capiva che quei cuori dovevano fare un gran battere, che avevano bisogno di trovarsi soli, con pochi, a casa, e là sciogliere il freno alla gioia soffocata. Quanti sudori, quanti piccoli sacrifizi di sollazzi fanciulleschi, quante veglie faticose ritornavano alla mente loro in quel punto, e come care a ricordarsi, e con che profonda esultanza benedette! Su certi visi splendeva l’orgoglio della vittoria; sotto certe sopracciglia aggrottate, lampeggiavano degli occhi superbi: — erano figure nobili e belle.

      Dopo questa prima distribuzione di premi, dovevano cantare le alunne.

      Si fece un silenzio generale.

      Le voci furono sulle prime sommesse ed incerte; ci si sentiva la trepidazione; ma a poco a poco si spiegarono in un alto canto sonoro, tremolo, derivato dall’anima. Pareva una preghiera alla quale lassù non si dovesse poter resistere, qualunque cosa chiedesse. In quei versi era invocata l’Italia; veniva naturale il desiderio di sorprendere sulle labbra di quelle bambine questo nome, di cogliere, mentre lo proferivano, l’espressione del loro viso e il lume dei loro occhi. Sarà stata illusione, si sarà preso per cosa reale un desiderio nostro vivissimo.... ma ci pareva di veder balenare un pensiero sulle fronti bianche di quelle future madri di operai, di soldati, di pensatori, d’artisti. O certo è almeno che quel nome, pronunziato da loro, ci suonava più caro all’orecchio; da quelle bocche innocenti pareva che uscisse purificato e benedetto, pareva che proferendolo, facessero del bene all’Italia; veniva fatto di gridare: — Ditelo ancora.

      Dopo il canto, furono distribuiti i premi agli alunni delle scuole serali e alle alunne delle scuole delle adulte.

      Qui venne la volta del canto dei fanciulli.

      Si fece un silenzio improvviso; pareva d’essere in teatro, in uno istante di raccoglimento profondo.

      Si sentì la musica.

      Tutt’a un tratto, mille voci assieme echeggiarono nel vasto recinto. Era un inno all’Italia, allo studio, alla virtù; una musica semplice e ispirata. Un coro d’artisti non avrebbe toccato il cuore più addentro. Non si può dire quello ch’era di gentile, di fresco, di vivo la piena delle voci sprigionate con rozzo e virgineo vigore da quei petti infantili. Cresceva man mano l’accordo e la forza del canto, cresceva l’ardore dei fanciulli, eccitati dall’eco della propria voce; pareva infine che ciascuno ci mettesse qualcosa di suo, che sfogasse un affetto proprio, che volesse dire non so che ai suoi compagni o alla gente; si sentivano mille suoni in quel canto; pareva a istanti una preghiera, un canto patrio, un inno di guerra, era fiero e soave ad un tempo; e poi tutti quei visi rivolti al cielo, tutti quegli occhi radianti, quei mille petti che parevano animati da un soffio solo..... commoveva. Che lunghe e pazienti cure di maestri erano a un punto significate e ricompensate in quel canto! Eppure pareva tanto spontaneo! Tutti questi sensi e pensieri si confondevano nell’anima degli spettatori in un palpito d’ammirazione affettuosa.

       Si distribuirono poi i premi agli alunni delle scuole elementari maschili, e allora vennero innanzi i bambini, e fu la scena più commovente e più bella. — Ma come! — si diceva all’apparire dei più piccoli; — quella creatura lì ha ottenuto il premio? Ma se pare che incominci ora a camminare! Ora gli danno il diploma; sarà buona a tenerlo in mano? Badate che non caschi, povero angelo.

      A questo seguì la Preghiera del Mosè, cantata dalle ragazze e dai ragazzi insieme, con un accordo e uno slancio mirabile. Subito dopo, la distribuzione dei premi alle alunne delle scuole elementari femminili, e da ultimo la musica.

      Così ebbe fine lo spettacolo.

      Cominciando dal sindaco fino all’ultimo maestro delle scuole elementari, ci sarebbe, in diverso grado, da lodar tutti, anche i ragazzi che hanno legato i mazzi di fiori, e le donne del popolo che hanno pettinato i bimbi, poichè tutti hanno giovato, per la parte loro, alla splendida e solenne riuscita della funzione; altri lo farà; io ho già detto anche troppo, e non aggiungerò che poche parole.

      Codesto spettacolo insegna ed ispira. Dinanzi ad esso, ciascuno di quei mille figliuoli d’operai ha potuto dire a sè medesimo: — Sì, — io piccino, io povero, io che campo di pan nero e vo vestito di cenci, io sconosciuto al mondo, e oggetto di compassione per i pochi che mi conoscono, io se voglio, se studio, se fatico, posso costringere un giorno diecimila persone, tutta questa gente, il fiore dei cittadini della mia città, a star zitti, come fanno adesso, per sentire il mio nome, a sporgere il capo per vedermi, a mormorare: — Eccolo là; — a dire ai loro


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