Rassegnazione. Luigi Capuana

Rassegnazione - Luigi Capuana


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l'esempio di mio padre. Ne avevano assorbito tutta la forza, tutta l'attività, tutto l'ingegno. Era stato forse un uomo libero lui, attanagliato dalle grosse speculazioni, dai grossi appalti, dai giuochi di borsa, sempre agitato dall'ansia di un tracollo e dalla crescente smania di guadagnare sempre più?

      Aveva avuto però un ideale, uno scopo: suo figlio; questo sangue del suo sangue, questa carne della sua carne, questo misero inetto, che la cecità dell'affetto paterno non gli faceva riconoscere tale; questa infelice creatura in cui il dissidio tra il pensiero e l'azione si rivelava così mostruosamente, così irreparabilmente alla luce di quella stessa cultura che avrebbe dovuto dargli vigore!

      Col gran numero di volumi di ogni genere divorati in quei quattro anni, tutto lo scibile umano ripensato, analizzato, rifatto dalla positiva scienza moderna, era passato a traverso il mio cervello e vi aveva lasciato un germe di orgoglio. Vivevo soltanto con la testa. Il cuore, la immaginazione mi si erano dunque atrofizzati? Infatti, niente di fresco, di giovanile sentivo in me. Invano avevo vent'anni! L'unico mio svago era stato disegnare; disegnare aridamente; copiando disegni altrui. Quando però mi convinsi che pure in questa meschina operazione la secchezza dell'anima mia traspariva nella rigidità delle linee, nella durezza degli scuri, smisi subito nauseato.

      Mi sentivo invadere da profonda pietà di me stesso e insieme da profondo disprezzo. Mi pareva che si adempisse sopra di me una giusta vendetta per tutti quegli agi immeritati che mi rendevano facile la vita e mi toglievano da ogni bassa occupazione manuale.

      Chi più infelice di me, che pure stavo comodamente seduto in quel vasto studio invaso dal sole, ornato di belle piante esotiche, cinto torno torno da eleganti scaffali dove si allineavano centinaia e centinaia di volumi pronti a ogni appello, capaci di rivelarmi i più riposti misteri della scienza, le più eccelse bellezze dell'arte, e che quasi non avevano nessun segreto per me?

      Mi ero seppellito, sì, da me stesso in quella tomba ridente, ma che altro avrei potuto fare?

      E là avevo sorbito, a stilla, a stilla, il sottile veleno del pensiero, per cui ora credevo che la vita avesse valore soltanto quando poteva raggiungere il suo più alto grado di espressione e di forza; là mi ero inorgoglito di essere uomo, e avevo voluto riuscir tale nel più nobile significato di quella parola!

      Artista o pensatore, giacchè uomo di azione non era il caso; ma grande artista, gran pensatore…. o niente! Non aggiungevo come il Bissi:—O un colpo di pistola!—Mi mancava l'energia di pensarlo.

      E tutto quel lieto sorriso di sole che inondava lo studio, quella luminosità che si riverberava nei mobili, nei quadri, nei ninnoli di bronzo e di porcellana, nel verde delle trasparenti foglioline dei bambù presso la finestra, mi parevano un'amara irrisione, un insulto in quel momento; m'incombevano, peso enorme, su l'anima trambasciata dall'evidenza della mia inanità. Mobili, quadri, ninnoli, piante avevano brividi di vita sotto la carezza del sole e dell'aria primaverile che penetrava dalle aperte finestre. La sola cosa morta colà ero io, disteso su la poltrona, davanti alla vasta scrivania ingombra di libri e di carte! No, un'altra cosa morta mi faceva compagnia: quell'aborto, quello sciagurato tentativo di arte su quei fogli rabbiosamente brancicati, strappati a metà e buttati alla rinfusa parte su la scrivania, parte per terra; e che io guardavo con occhi sbarrati, quasi brani di me squartati da spaventevole mostro, nei quali mi pareva di scorgere gli ultimi sussulti della vita che si spegneva!

       Indice

      Perciò non mi ero mosso, sentendo replicatamente picchiare all'uscio; perciò non mi ero sollevato dalla poltrona vedendo quel bel bambino biondo, coi riccioli spioventi attorno al collo e i grandi occhi interroganti e il sorriso ancora più interrogante degli sguardi, affacciatosi all'uscio cautamente da lui aperto.

      —Dormi?—mi domandò.

      E non vedendomi muovere, era entrato saltandomi addosso, gettandomi le braccia al collo per baciarmi.

      —C'è la mamma di là, in salotto, dalla tua mamma. Io mi annoiavo, e sono venuto da te. Mi mandi via?

      —No.

      —Stai così zitto! Che hai?

      —Niente.

      Lo sollevai tra le braccia, lo baciai, lo misi a terra, stirandomi tutto per scacciare il torpore che mi aveva invaso; osservandolo con intenso piacere, mentre lo tenevo per le mani un po' discosto, quasi lo vedessi allora per la prima volta.

      Bello, sano, forte, con quei lunghi capelli e lo svelto vestito alla marinaia, più che bambino, mi pareva già uomo, tanta espressione d'intelligenza aveva negli occhi e nella fronte, tanta pienezza di energia mostrava nell'atteggiamento della persona.

      —Oggi è vacanza!—mi disse, accompagnando le parole con un vivacissimo atteggiamento della testa.

      —Non ami la scuola?

      —Sì; ma mi piace pure fare il chiasso e andare attorno con la mamma o col babbo.

      Moveva rapidamente gli sguardi in giro per la stanza, come se volesse abbracciare ogni cosa con una occhiata; poi si era fermato ad osservare i libri che riempivano gli scompartimenti degli scaffali.

      —Li hai letti tutti?—domandò, additandomeli.—Anche il babbo ne ha molti—non tanti—e me li darà quando sarò grande. Ma io voglio piuttosto le sciabole, le pistole, le lance, i fucili appesi alla panoplia—si dice così?—nello studio del babbo. Voglio essere generale io, andare in Africa e ammazzare tutti gli abissini che hanno scannato a Dogali i nostri soldati.

      —Chi te l'ha detto?

      —Il babbo; lo leggeva nel giornale e io stavo a sentire. E poi ho visto i ritratti…. le figure. Come sono brutti gli abissini! Senti. Ho messi in fila i miei soldatini di piombo, ne ho più di cinquanta, e ho detto:—Voi siete abissini!—Poi, presa la mia sciabola di latta, piff! paff! gli ho buttati per terra e gli ho lasciati là.

      —E se gli abissini, quando andrai in Africa, ammazzeranno te?—replicai per provocarlo.

      Fece una spallucciata sdegnosa, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra, e arditamente rispose:

      —Prima ne ammazzerò almeno un centinaio! Non sarò solo; comanderò tanti soldati, su un bel cavallo come quello del re.

      E moveva le gambe per imitare lo scalpito del cavallo, ergendo la vita, facendo il gesto di infrenarlo per le redini, quasi in quel momento stesse proprio sul dorso di un focoso animale.

      Io lo guardavo stupito. Che rigoglioso sviluppo di facoltà in quella creaturina di sette anni! Come le mosse della persona, la prontezza della parola ne mostravano la ferma volontà, la coscienza di potere, la sicurezza di sottomettere tutto alla sua forza! Non riflettevo in quel momento che poteva trattarsi di una spavalderia di bambino; pensavo soltanto che io non ero mai stato capace di sentire e di immaginare qualcosa di simile, e non ne ero capace neppur ora!

      Si era avvicinato al tavolino dov'erano ammucchiati tutti i miei lapis, le carbonelle, i pennelli, accanto ad una scatola di colori per acquarello; li esaminava attentamente.

      —Faccio un pupazzo?

      E senza attendere il mio permesso, aveva intinto un pennello, sorridendo della propria arditezza, mentre prendeva un foglio di carta e se lo aggiustava dinanzi. Mutò pensiero a un tratto:

      —Fammelo tu, ma bello! Un soldato con cappello da bersagliere.

      —Un'altra volta,—risposi:—Oggi sono occupato.

      —Allora me ne vado.

      Era corso verso una pianta di bambù. Ne accarezzava le foglioline, ne piegava gli esili rami.

      —Come si chiama questa pianta?

      —Bambù.

      —Quella di cui si fanno le mazzettine?

      —Sì.


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