Rassegnazione. Luigi Capuana

Rassegnazione - Luigi Capuana


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Mi hanno chiamato?

      —Mi è parso.

      Mi tese la mano, con agile atto di persona matura, e, nel socchiudere l'uscio, affacciò la testa tra i battenti per rammentarmi:

      —Con cappello da bersagliere, hai capito?

      Che misera creatura ero io, se sentivo di valere assai meno di quel bambino di sette anni!

       Indice

      Mio padre arrivava in mal punto.

      Ero, da più giorni, tormentato da questa convinzione della mia inettezza a qualunque cosa che veramente meritasse di occupare l'intelligenza di un uomo. In certi momenti mi domandavo se quella sproporzione tra la mia idea e le mie forze fisiche e mentali non fosse grave sintomo di degenerazione o di pazzia.

      Riflettevo:

      —Un gran poeta, un gran romanziere, un gran drammaturgo, qualunque grande artista, qualunque gran pensatore è tale quasi senza saperlo. A nessuno di essi dev'essere mai passato per la testa:—Voglio essere questo! Voglio essere quest'altro!—Si sono sentiti artisti, pensatori, o meglio hanno operato da artisti, da pensatori, creando, ragionando, facendo naturalmente, semplicemente la loro funzione. Chi dice, come me:—Vorrei essere questo! Vorrei essere quest'altro!—ha già la coscienza di essere tutt'altro.

      Che sono io? Un orgoglioso, un vanitoso! Un uomo mancato!

      E inutilmente soggiungevo:

      —Al pari di mille e mille altri!

      Questo non mi consolava, non leniva il mio tormento.

      Fino al giorno però in cui mio padre venne improvvisamente a disperdere le mie ultime illusioni, io non avevo ancora sentito l'abbattimento così disperato che quel giorno mi faceva singhiozzare bocconi sul letto, brancicando la coperta con mani convulse.

      Mi sembrava che il mondo fosse crollato attorno a me e che fosse sparita ogni luce.

      —Dario! Dario!—sentii chiamare.

      Era la voce di mia madre.

      Mi asciugai in fretta il viso bagnato di lacrime, cercai di dissimulare la mia angoscia e corsi ad aprire l'uscio.

      —Dario!…

      Mio padre le aveva accennato qualche cosa di ciò che mi aveva detto poco prima, e la povera donna accorreva per temperare l'asprezza da lei sospettata nelle parole di lui.

      —Oh, mamma!—esclamai, gettandole le braccia al collo e chinando desolatamente la testa, sul suo petto ansante.

      —Coraggio! Tuo padre ti vuol bene. Non prendere in mala parte i suoi consigli, la sua insistenza.

      —Il babbo ha ragione,—risposi con voce cupa.

      —Ascoltami, Dario!—ella soggiunse affettuosamente.

      E mi condusse per mano verso il canapè forzandomi a sedere accanto a lei.

      Era un po' pallida, ma sorrideva con tale espressione di dolcezza e di benignità, che io sentii dileguare quasi tutt'a un tratto quel fremito di rancore destatosi nel mio animo mentre mio padre parlava.

      —Ho fatto come tuo padre,—cominciò;—ti ho lasciato pienissima libertà riguardo al tuo avvenire. È giusto che i genitori non pesino per nulla su questa scelta perchè possono facilmente ingannarsi e indurre in inganno.

      —Ah! Non ho da scegliere,—la interruppi.—Ogni via mi è chiusa.

      —Credi tu dunque di averle esaminate tutte?

      —Tutte!

      —Lo so; tu vorresti farti onore nel mondo con le opere del tuo ingegno; vorresti arrivare in alto, alla cima; la mediocrità ti fa orrore; me lo hai detto più volte. Hai tentato, ti è parso di non aver forza da riuscire, ed hai perduto la fiducia che ti aveva sostenuto finora. Sei orgoglioso e modesto nello stesso punto, e ciò onora molto la tua intelligenza e il tuo cuore. Io non m'intendo di queste materie; la mia cultura è troppo scarsa da poter giudicare se hai torto o ragione. Mettiamo che tu abbia ragione. Che vuol dire? Se tutti la pensassero come te, la società perirebbe d'inerzia. Ciascuno di noi porta dentro di sè qualche sogno non mai potuto realizzare; ed io credo che sia bene che avvenga così. Non è certo, figliuolo mio, che avremmo raggiunto la felicità o la gloria, realizzando quel sogno. Nella vita poi vi sono còmpiti umili o modesti non meno necessarii nè meno utili del còmpito dell'artista e dello scienziato. E ci vuole grandezza d'animo e quasi eroismo per eseguirli senza rimpianto di maggiori cose, attentamente, amorosamente, non come penoso dovere, per non sopportarli soltanto come inevitabile croce. Non ti meravigliare che io parli così. Non ripeto cose imparate dai libri; esprimo quel che ho pensato e meditato da anni, silenziosamente, portando dentro di me il mio sogno rimasto tale, ed eseguendo il mio còmpito rassegnatamente, con lo stesso amore con cui lo avrei eseguito, se lo avessi scelto di mia libera volontà.

      —Anche tu, mamma?—la interruppi stupito.

      —Oh, non immaginare niente che possa eguagliarsi a quel che tu desidereresti di raggiungere! Raramente il pensiero di una donna va più in là della famiglia, di quel nido di amore dove ella vorrebbe essere schiava e regina nello stesso punto. Mia madre è stata un'eletta. Tu non l'hai conosciuta. Avresti avuto una nonna adorabile. Era bellissima e di bontà immensa. Più che coi precetti, mi ha educata con l'esempio. Creatura felice, ha fatto felice l'uomo del suo cuore, e quanti le stavano attorno. Credevo che avrei dovuto avere la stessa sorte; potevo ambirne una migliore?… Invece!… Non accuso qualcuno, e meno di tutti tuo padre.

      —Anche tu, mamma?—replicai guardandola fisso negli occhi, quasi temessi che ella, non volesse svelarmi il suo doloroso segreto, e tentassi di carpirglielo per forza.

      —Non accuso qualcuno,—ella riprese,—e meno di tutti tuo padre. La sua condizione era molto diversa della tua. Un disastro economico della sua famiglia lo ha costretto a rifare col lavoro quel che l'imprevidenza di suo padre e la furfanteria degli altri gli aveva improvvisamente rapito. Poi, quando la fortuna ebbe aiutato i grandissimi sforzi di attività che egli era riuscito a fare, quella stessa febbre di speculazioni, di imprese, di appalti, di scommesse di borsa che lo aveva risollevato in alto, lo ritenne, quasi sua preda, lo sopraffece, gli die' la vertigine. Fu marito e padre soltanto nei primi anni del nostro matrimonio; dopo, è stato, in famiglia, una macchina creatrice di ricchezza; non ha avuto tempo di esser altro. Sballottato di qua, di là, pel mondo, si ricordava di me unicamente per farmi sapere che mi voleva felice, assieme col figlio, e che tutta la sua vita era consacrata a questo scopo. Ma per lui la felicità consisteva nella ricchezza; in niente altro. Io gli sono stata e gli sono gratissima di questa buona intenzione; e ringrazio Iddio che lo ha aiutato in ogni sua impresa. Egli però, te lo dico senza ombra di rancore, ha voluto altrimenti. Io avevo te, ero assorta nelle cure della tua malferma salute, nella tua educazione, e mi mancava il tempo di essere gelosa, di dolermi di esser messa da parte nella sua vita, di essergli divenuta presto, se non un'estranea, certamente non più la donna sua, come sposandolo avevo sognato. Sono stata rispettata, stimata infinitamente; amata, no!

      —Povera mamma!—esclamai.

      —Non mi compiangere. Ho avuto la buona ventura di rassegnarmi. Quel mio sogno di ragazza mi si è rifugiato in fondo al cuore, vi si è nascosto e addormentato; ed oggi è la prima volta che lo sveglio e torno a guardarlo. Tuo padre non ha mai sospettato che io soffrissi in silenzio, e che rimpiangessi qualche cosa. Mi ha creduto forse indifferente, fredda, anima creata a posta per stare sottomessa, formata per servire un padrone.

      —Oh! Tu sei stata dunque una martire, mamma?—dissi, prendendole le mani e baciandogliele ripetutamente.

      —Martire è troppo, figlio mio!

      Sorrideva serena. Ma negli occhi e in certe pieghe delle labbra le si scorgevano facilmente segni di profonda tristezza.

      —Non


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