Dal primo piano alla soffitta. Enrico Castelnuovo
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Enrico Castelnuovo
Dal primo piano alla soffitta
Pubblicato da Good Press, 2020
EAN 4064066071950
Indice
ROMANZO
DI
ENRICO CASTELNUOVO
Seconda Edizione.
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1883.
DAL PRIMO PIANO ALLA SOFFITTA
I.
Qualunque spettacolo ci fosse sul Canal Grande, s’era sicuri di veder folla in palazzo Bollati. Figuriamoci poi quanta gente s’aspettasse quella domenica 7 ottobre 1838 in cui ci doveva essere la regata in onore di S. M. Ferdinando I, venuto insieme con l’augusta consorte a beatificare di sua presenza la fedele città di Venezia.
Già fin dalla mattina si vedeva una gran confusione, una grand’affaccendarsi dei servi a lavare i pavimenti, a spolverare i mobili, a fregar le maniglie degli usci, a mettere i damaschi fuori delle finestre. Il contino Leonardo, ragazzo di circa quindici anni, era giù alla riva in mezzo ai tappezzieri che stavano compiendo l’addobbo della bissona l’Uscocca, allestita per cura e a spese della famiglia Bollati, e nella quale egli stesso, il contino, sarebbe entrato più tardi. E alla riva c’era anche Tita, uno dei barcaiuoli di casa, col suo gondolino, che doveva prender parte alla gara e che portava il numero 6. Naturalmente, Tita aveva la testa piena del grande avvenimento e discuteva col padroncino circa al merito dei varii competitori ch’erano su per giù quelli dell’ultima regata. C’era però questa volta un giovine muranese, un tal Nane Sandretti detto Bisatto, di cui nessuno aveva sentito parlare fino a poche settimane addietro e del quale si pronosticavano miracoli. Sarà benissimo.... Forza ne aveva sicuramente, ma la forza non basta. Tita voleva mostrarsi imparziale; nondimeno egli doveva dire la sua opinione, ed era questa: che i Muranesi avessero a stare a Murano e a farsi le loro regate per sè. In quanto a lui, il Bisatto non gli faceva paura e con l’aiuto della Madonna sperava di guadagnarsi anche quest’anno la sua brava bandiera rossa. Non si lagnava del compagno che gli avevano dato, uno fra i pochi Castelani che sapessero tenere il remo[1]. Tita aggiungeva poi alcune savie considerazioni sul tempo che non era perfettamente sereno, ma che, secondo lui, si sarebbe mantenuto abbastanza buono fino a notte, sul riflusso che sarebbe cominciato fra le cinque e le cinque e mezzo, e su altri argomenti di non minore importanza. Anche il conte Zaccaria, padre di Leonardo, s’era alzato di buon mattino e girava su e giù per le stanze in compagnia dell’agente generale, sior Bortolo, descrivendogli l’accoglienze ricevute il dì prima da Sua Maestà, la quale s’era mostrata informatissima della grandezza dei Bollati e gli aveva detto subito!—Ah, Bollati.... nome storico.... conosco.—E il conte Zaccaria osservava che, quando si ha un nome storico, si ha l’obbligo di curarne lo splendore senza badar troppo al dispendio, e che già ci son certe spese le quali possono considerarsi più ch’altro una buona investita di capitali, e ch’egli non era pentito sicuramente d’aver fatto ristaurare il palazzo e addobbare l’Uscocca, perch’eran tutte cose le quali tornavano a lustro della famiglia. Parole d’oro a cui sior Bortolo, uomo furbo e discreto, si guardava bene dal contraddire.
Se il conte Zaccaria era disposto quella mattina a veder tutto color rosa, la nobildonna Chiaretta, sua illustre consorte, pessimista per indole, s’era svegliata d’umor più nero del consueto. Essa diceva chiaro alla cameriera che non vedeva l’ora che questa baldoria finisse, e ch’era una vita da cani, e che, se durava ancora un mese così, ci avrebbe rimesso la pelle. Meno male se l’amor proprio fosse stato soddisfatto. Ma ci voleva quel grullo di suo marito per contentarsene. Ormai tutti potevano avvicinare i Sovrani, tutti potevano andare a Corte, ed ella aveva avuto l’umiliazione di trovarvi certe donnette che non avrebbe ricevuto in