Dal primo piano alla soffitta. Enrico Castelnuovo

Dal primo piano alla soffitta - Enrico Castelnuovo


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Tita non voleva esser consolato e andava in escandescenze, soprattutto quando la sua umiliazione gli era rammentata dai guaiti del porcellino che giaceva in un angolo, più morto che vivo.

      —Povera bestia!—esclamò la Cate, chinandosi sull’infelice animale in atteggiamento di suora di carità.—Come se ne avesse colpa!... È tutto ammaccato... Che ragione c’era di pigliarlo a calci? Che se poi crepa di bile, non è più buono da mangiare.

      —È vero—notò gravemente un nuovo personaggio comparso in quel punto. Era il signor Oreste, il cuoco, in abito da signore, col metternicche in testa, una collana d’oro al collo e uno spillone di diamanti sulla camicia.—È vero—egli riprese dopo una pausa. E inventandosi apposta un proverbio per l’occasione continuò:—Bestia ben trattata buona in pignatta.... E questa qui non ha bisogno d’altre disgrazie.... Conviene ingrassarla per una settimana, e poi si potrà farne uno stufatino con la salsa piccante....

      —Ma che stufatino!... Ma che salsa piccante!—interruppe la Cate.—Meglio arrosto.

      —Scusi, siora Cate, è troppo piccolo.

      —Alla malora il porco e i suoi protettori—urlò Tita in una recrudescenza di furore.—Ch’io possa morire d’un accidente se di quel porco lì ne assaggio un boccone.... L’avevo detto al mio compagno che se lo tenesse tutto per lui.

      Ma la sorella, ch’era una giovane savia e positiva, protestò contro quest’idea bislacca.—Neanche per sogno.... Quello ch’è giustizia.... Ciascuno la sua parte.

      —Belle parti che si faranno—disse il signor Oreste con piglio sprezzante, accennando alla piccolezza dell’animale.

      —O che non potrebbe attendere alle sue casseruole, sior piavolo?—rimbeccò la Cate, che non poteva soffrire il cuoco, il quale un giorno aveva voluto mettere a troppo caro prezzo un piatto di polpette ch’egli le aveva regalate.

      —Ehi, ehi, la mia tosa, che fumi vi montano alla testa?

      —Zitto—sussurrò qualcheduno—che c’è sior Bortolo.

      Infatti, l’agente generale discendeva dalla scaletta del mezzà in compagnia d’un signore dai baffi grigi che faceva il sensale di mutui e godeva di una mediocre riputazione.

      —Siamo intesi, caro Bellani... Combinando l’affare l’un per cento a me....

      In quel punto la porta della scala di servizio si aprì con violenza, e un cameriere in livrea gridò tutto trafelato.—Che qualcheduno vada subito in farmacia a cercare un medico.... Dal dottor Zuliari andrò io... È venuto un deliquio a Sua Eccellenza Leonardo.

       Indice

      Il deliquio del vecchio conte non durò che pochi minuti, ma i medici, considerando l’età avanzata e il fisico indebolito di Sua Eccellenza, lo giudicarono un sintomo gravissimo e non tacquero le loro inquietudini alla famiglia. Nè s’apponevano a torto; chè di lì a qualche giorno apparve evidente che il nobil’uomo Leonardo Bollati, patrizio veneto e comandante di galera sotto la Serenissima, si spegneva a oncia a oncia, come lampada a cui manchi l’olio. Egli conservò per altro sino all’ultimo la lucidezza della mente, e quando s’accorse d’essere ormai bell’e spacciato, chiamò al suo letto il figliuolo e gli tenne all’incirca questo discorso:

      —Lasciamo i preamboli, perchè non ho tempo da perdere. Presto sarete voi il capo della famiglia di nome e di fatto. È dunque bene che sappiate, se non ve ne foste ancora accorto, che, da un secolo a questa parte, c’è in casa nostra tutta la disposizione ad andare in malora. La mia colpa ce l’avrò anch’io, ma si è cominciato molto prima di me a spendere più di quello che si poteva. Se cercherete su nell’archivio le lettere del vostro prozio Almorò, ambasciatore a Parigi, vedrete ch’egli domandava 120 mila franchi all’anno per lui solo e l’agente aveva un bel da fare a trovarglieli. E vedrete anche la polizza delle spese occorse per le feste date in occasione della nomina a Procuratore di San Marco di vostro nonno e mio padre Zaccaria. Oh bazzecole! venti mila ducati! Notate che in quei tempi c’era ogni tanto la sua brava eredità che capitava in buon punto a colmare i vuoti. Ma adesso i pochi parenti che ci restano son tutti spiantati, e non so quali eredità si possono sperare.... Se non fosse da parte dei Rialti....

      Questa supposizione parve sì comica al conte Leonardo ch’egli si mise a ridere, e, poichè il riso gli fece venire la tosse, dovette interrompere la sua arringa.

      —Sì, sì—egli riprese di lì a un paio di minuti—tutti ebbero le mani bucate nella nostra famiglia. Non è da eccettuarsi che una bisavola, la quale aveva invece la manìa dell’avarizia, e, fra l’altre cose, lasciò alla sua morte una cinquantina di pacchi di curadenti con scrittovi sopra: usati, ma servibili. Insomma quello che volevo dirvi si è ch’è necessario metter giudizio; se no vi assicuro io che, nonostante i due dogi, i tre procuratori e gli altri illustrissimi personaggi che vantiamo per antenati, di tutte le nostre ricchezze non ci resterà fra poco il becco d’un quattrino. E queste cose ditele alla mia degnissima nuora, che non si sa proprio come spenda il danaro, perchè le nostre vecchie si divertivano, e quella lì consuma una sostanza in caffè, cioccolata, baicoli e paste sfogliate. Badate poi al vostro figliuolo Leonardo, che giurerei destinato a restare un somaro e a diventare un cattivo soggetto. Finalmente credo utile avvertirvi che tutti i nostri dipendenti ci succhiano il sangue come tanti vampiri, cominciando dall’agente generale sior Bortolo e terminando coll’ultimo fattore di campagna. Già saprete il proverbio: Fame fator un ano, e se moro de fame xe mio dano. Non vi suggerisco di cambiarli, perchè ne prendereste di quelli che vi ruberebbero ancora di più; solamente tenete gli occhi aperti e procurate di far meglio di quello che ho fatto io. Io me ne lavo le mani. È il meno che si possa fare quando si va all’altro mondo.

      In complesso il sermone del conte Leonardo era pieno d’idee giudiziose, ciò che prova come tutti gli uomini in punto di morte abbiano l’attitudine a dar buoni consigli, perchè sanno di non doverli più avvalorar con l’esempio, e perchè non temono più le conseguenze dei sacrifizi che suggeriscono agli altri.

      E invero quando, dopo pochi giorni, Sua Eccellenza morì con tutti i conforti della religione, il suo testamento parve fatto apposta per ismentire le savie massime ch’egli aveva predicato, tanti e di tante specie erano i legati che imponeva all’erede. Ce n’era sotto forma di elargizioni a opere pie, di somme da pagarsi in una sol volta a parenti ed a amici, di elemosine ai poveri, di pensione alla servitù, ecc., ecc. Nè mancavano istruzioni precise, minute, circa ai funerali che dovevano essere tra i più splendidi che si fossero visti.

      Questi funerali i vecchi parrocchiani se li ricordano ancora. Essi si ricordano perfettamente quanti minuti impiegasse il corteo per giungere dal palazzo alla chiesa, quanti preti, quante confraternite, quante rappresentanze civili e militari, quanti servi di casa, quanti gondolieri di famiglie patrizie vi prendessero parte, e che folla di curiosi venisse in coda, donne, ragazzi, pezzenti d’ogni età e d’ogni sesso, che, trattenuti a fatica dai fanti del Municipio, si accalcavano gli uni sugli altri, mormorando per non aver potuto avere il torcetto. In chiesa poi era uno spettacolo imponente. Le pareti e i pilastri erano rivestiti di drappo nero con galloni d’argento, un gran catafalco con iscrizioni ai quattro lati s’ergeva nel mezzo, le fiamme oscillanti dei ceri abbarbagliavano gli occhi e gettavano in faccia dei buffi d’aria infocata. Dopo che il feretro fu issato sul catafalco, intorno al quale stavano ritti ed immobili quattro pompieri con le spade nude e quattro servitori con le torce accese, principiò la cerimonia religiosa, una cerimonia che non voleva finir mai. Le onde sonore che partivano dalla cantoria accrescevano, s’era possibile, il caldo affannoso, la gente, stipata come le sardelle in barile, si rasciugava i sudori con la manica del vestito (seppur le riusciva di alzare il braccio), e di tratto in tratto, non potendone proprio più, metteva dei muggiti simili a quelli del mare in burrasca. Insomma, quando piacque a Dio, il parroco pronunziò l’assoluzione e il funerale si mosse. Ci fu di nuovo un serra serra, qualche bimbo rischiò


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