Dal primo piano alla soffitta. Enrico Castelnuovo

Dal primo piano alla soffitta - Enrico Castelnuovo


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i discorsi, la bara fu accompagnata sino al canale, e venne deposta in una peota riccamente addobbata, nella quale salirono i famigli del defunto, alcuni pompieri e fanti del Municipio. La peota preceduta da una barca con la musica e seguita da uno stuolo di gondole si diresse verso il cimitero di San Michele di Murano.

      La folla si disperse da varie parti. Solo un centinaio di poveri (donne in gran parte) s’avviarono al palazzo per buscarsi qualche soldo d’elemosina.

      Sior Bortolo, il quale, soffrendo un po’ d’asma non era andato in chiesa, ebbe un bel da fare a liberarsi da quest’arpie ch’eran riuscite a penetrar nel mezzà e lo assordavano delle loro querimonie.

      —A mio marito non hanno dato nemmeno una candela.

      —Ho quattro creature, io....

      —Son due giorni che non si accende fuoco in casa....

      —Sono un povero vecchio impotente....

      —Ho il figliuolo coscritto.

      —Andate in pace—diceva sior Bortolo—chè già nel testamento di S. E. Leonardo c’è un legato pei poveri della parrocchia.

      —Oh paron benedeto!—stillavano alcune di quelle megere—di quei soldi lì noi altri non ne vediamo.... Se li mangia il pievano.

      —Eh, vergogna. Che discorsi!

      —Pur troppo, sior Bortolo.... Pur troppo la è sempre così.

      —Se anche non li mangia tutti—soggiungeva una femmina d’opinioni moderate—li distribuisce a suo modo, a chi non li merita, a chi non ha bisogno.... Sia buono, sior Bortolo, ci dia qualche cosa.

      Sior Bortolo si lasciava commuovere e cacciava le mani dentro un cassetto.—Uno alla volta.... Marco.

      Marco era un fattorino addetto all’agenzia.

      Sior Bortolo gli diede una manata di soldi con l’incarico di licenziare tutta quella gente, e Marco ricorrendo a sior Bortolo ogni volta che la provvista era esaurita, persuase i postulanti ad andarsene. In questa delicata operazione egli seppe far in modo che qualche mezza svanzica si smarrisse nelle tasche della sua giacchetta. Sior Bortolo, dal canto suo, nel registrare la sera tutte le spese innumerevoli della giornata, stimò opportuno di arrotondare la cifra, sembrandogli forse che il decoro della nobile famiglia Bollati esigesse di far comparire nei libri una somma maggiore del vero.

      Sua Eccellenza il conte Leonardo Bollati, che scendeva sotterra in quel giorno d’ottobre 1838, non era un grand’uomo, come volevano far credere i suoi panegiristi. Egli aveva avuto la fortuna di conquistare in gioventù una certa riputazione di valore combattendo sotto gli ordini dell’ammiraglio Emo nell’impresa di Tunisi, e aveva avuto l’abilità di conservar quella riputazione, non mettendola mai alla prova. Così più d’uno aveva creduto (e abbiamo visto che tale era anche l’opinione del vecchio barbiere) che se, nel 1797, egli fosse stato alla testa della flotta, le cose sarebbero andate diversamente.

      Caduta la Repubblica, Sua Eccellenza non volle più servire nè sotto il Governo democratico che le succedette per pochi mesi, nè sotto alcuno dei Governi che si avvicendarono poi, e quest’atto, che forse in lui era da attribuirsi a sola pigrizia, fu interpretato quale una protesta dignitosa contro i nuovi ordinamenti politici della patria. È vero che questo suo nobile disdegno non gl’impedì d’essere tra i patrizi veneziani i quali sollecitarono dall’Austria la corona di conte.

      Se Sua Eccellenza Leonardo Bollati abbandonò dopo il 1797 i pubblici uffici, non si può dire ch’egli si consacrasse con molto zelo alle sue faccende private, chè anzi, mortagli la moglie in età ancora fresca, egli non si diede alcun pensiero dell’unico figliuolo rimastogli, e continuò invece, fin che la salute glielo permise, a menar vita dissipata e galante. A ogni modo, sia pel fascino esercitato dal suo nome storico, sia pei ricordi che gettavano una luce favorevole sulla sua gioventù, sia per una certa prontezza e festività di spirito, sia per le maniere affabili sotto le quali egli dissimulava l’alterigia e l’egoismo nativo, sia pel largo patrimonio ch’è mezzo sicuro di coltivar le aderenze, il conte Bollati era un uomo assai popolare e molti riverivano in lui uno degli ultimi rappresentanti di quell’aristocrazia veneziana che diede così splendidi esempi di senno civile. E quantunque da alcuni anni egli non si facesse veder quasi da nessuno e lasciasse far tutto al figliuolo, la sua morte recò una scossa notevole al credito della famiglia, cosa di cui l’agente generale fu il primo ad accorgersi nel combinare l’operazione finanziaria indispensabile pel pagamento dei numerosi legati.

      Sior Bortolo era una perla d’agente, che non seccava mai i padroni coi molesti predicozzi dei commessi troppo scrupolosi, che non lesinava mai il danaro, nè sollevava dubbi e difficoltà. A ogni straordinaria richiesta di fondi, egli atteggiava le labbra a un sorrisetto serafico e rispondeva:—Sarà fatto.—E non c’era pericolo ch’egli non mantenesse la sua parola. Ohibò! Si era sicuri di vederlo comparire il domani più sorridente ancora del consueto con la somma precisa di cui si aveva bisogno. E la soddisfazione che sior Bortolo provava nel compiacere la nobile famiglia era tale ch’egli diventava ogni giorno più lucido e grasso, tanto lucido da parer spalmato di lardo, tanto grasso da raggiunger quasi la forma sferica.

      Sappiamo già che il conte Leonardo era intimamente persuaso che l’ottimo sior Bortolo rubasse a man salva. Ma egli diceva:—Non posso mica attender io stesso ai miei affari. E a qualunque altro li affidassi, sarebbe peggio.—Il conte Zaccaria poi non faceva neanche questo ragionamento; egli lasciava correre senza badare più in là.

      Adesso però, sotto l’impressione delle profezie e delle ammonizioni paterne, egli stimò necessario di veder coi suoi occhi come stavano le cose, e ordinò a sior Bortolo di preparargli un prospettino da cui apparisse chiaro lo stato del patrimonio. E sior Bortolo con mirabile sollecitudine allestì un lavoro degno della sua perizia di contabile e di calligrafo. Frutto di queste lucubrazioni furono due nitidi specchi a doppia colonna, l’una per il dare, l’altra per l’avere. Nel primo figuravano a destra le somme a cui erano stimati i beni della famiglia, possidenze in città e in campagna, oggetti d’arte e oggetti preziosi, ecc. ecc.; a sinistra si leggevano i nomi dei varii creditori insieme con le cifre dei loro crediti. Qui c’era una bella differenza in più nell’avere. Nel secondo specchio erano disposte nello stesso ordine l’entrata e l’uscita: spese domestiche presunte, livelli, tasse, interessi dei mutui. E c’era una bella differenza anche qui, ma in senso contrario; il dare superava l’avere di parecchie migliaia di lire.

      —Capisco, capisco—disse il conte Zaccaria dopo aver esaminato per mezz’ora i due prospetti in lungo e in largo—noi avanziamo ogni anno dai quattro ai cinquemila ducati.

      —Scusi, Eccellenza—interpose l’agente—è proprio il rovescio. Si spendono quattro o cinquemila ducati in più.

      Il conte Zaccaria si grattò la nuca.

      —E come va questa faccenda?

      —Ma!—rispose sior Bortolo, sprofondando la testa fra le spalle.—Mi pareva che S. E. Leonardo (pace all’anima sua) l’avesse avvertita....

      —Sì, sì, mi disse qualche cosa.... senza parlare di cifre....

      —Del resto—ripigliò l’agente per dorar la pillola—del resto, se ci fossero due buoni raccolti di seguito, un aumento nelle entrate lo si dovrebbe vedere. Poi c’è qualche livello che sta per cessare.... In ogni modo, non lo dissimulo, un po’ d’economia sarebbe assai utile. Dal canto mio, per quanto riguarda l’agenzia, procurerò sicuramente.... ma bisognerebbe che anche in famiglia.... perdoni, Eccellenza, se mi prendo questa libertà.... ma è la mia devozione per la casa Bollati.

      —Bene, bene.... vedremo.... Capisco....

      —Di qui ad alcuni anni poi—soggiunse sior Bortolo—il contino Leonardo, col suo nome e con le sue belle qualità, che il Signore Iddio gli conservi, potrà trovar la dote che vuole....

      —Affari lontani, caro amico, affari lontani....

      —Lontani,


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