Dal primo piano alla soffitta. Enrico Castelnuovo

Dal primo piano alla soffitta - Enrico Castelnuovo


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marina, e prossimo a uscirne cadetto.

      La fulgida visione disparve, e di lì a poco s’intese il cannone che annunziava la partenza dei regatanti dalla punta dei Giardini pubblici. Un lungo mormorio corse attraverso la folla accalcata sulle due rive del Canalazzo; poi si fece uno di quei silenzi solenni in cui si sente palpitare il cuore d’un popolo. Oggi scaduta dalla sua importanza, la regata era fino a trent’anni fa lo spettacolo favorito dei Veneziani. A ogni modo, essa era ed è sempre lo spettacolo popolare per eccellenza. La lotta dei gladiatori in Roma antica, la corsa dei tori in Ispagna trovano forse una maggior partecipazione in tutte le classi sociali, ma nessuna festa scuote più vivamente le fibre della moltitudine. Quanto tempo prima se ne discorre nei traghetti, per le osterie, nelle case, nei trivii, quanto tempo dopo si continua a parlarne! E il giorno della prova, mezza Venezia si spopola per riversarsi sull’altra metà. La gente s’insacca nelle barche, nelle peate, nei battelli d’ogni forma e misura, fa ressa sulle fondamenta, paga volentieri qualche soldo per assicurarsi una seggiola o un posto sopra qualche panca, o s’arrampica sugli sporti delle fabbriche, sull’inferriate delle case, sui piedestalli dei candelabri, o s’addensa dietro le spallette del ponte di Rialto, la cui mole maestosa e severa sembra acquistare il moto e la vita a quell’ondeggiamento di teste. E in quel giorno più che mai il popolo è superbo della sua Venezia, e s’inebbria in quel tripudio di colori e di luce onde ogni cosa s’anima e si trasfigura, dal freddo marmo dei palazzi gotici, arabi, lombardeschi, barocchi, alle carni pastose e alle fulve o brune chiome delle donne e delle fanciulle.

      Ma ecco nuovamente venir di lontano un rumore che somiglia al muggito del mare, ecco una viva ansietà dipingersi nei volti, ecco tutti gli sguardi tendere a un punto.

      —Son vicini...

      —Son qui...

      —Chi è il primo?

      —Non si capisce.... C’è il sole che confonde la vista.

      Il conte Zaccaria, gonfio e pettoruto pel bel successo della sua Uscocca, aveva annunziato come cosa sicura a’ suoi ospiti che il primo sarebbe stato il gondolino rosso N. 6 a poppa del quale vogava il suo Tita Oliva. Ma, ohimè, il gondolino N. 6 non era che il secondo, e anche questo secondo posto gli era fieramente contrastato dal gondolino viola N. 4; l’uno e l’altro poi erano preceduti d’un buon tratto dal gondolino celeste N. 8, su cui si trovava il formidabile Nane Bisatto. I gondolini 5 e 7 si disputavano il quarto premio, gli altri, ormai disperati di riuscire, venivano dietro lentamente a grande distanza.

      —Non è deciso nulla—disse il conte Zaccaria facendo di tutto per nascondere il proprio dispetto.—Riderà bene chi riderà ultimo.

      Infatti i gondolini dovevano ancora giungere al punto estremo del Canal Grande, a Santa Chiara, poi girare intorno a un palo che qui chiamano il paletto, e rifare una gran parte del cammino fin presso l’imboccatura del rio Foscari, ove sorge la cosidetta Macchina, ch’è una elegante baracca di legno improvvisata sull’acqua e segna la meta ultima della corsa. In tal maniera, da tutti i palazzi che stanno tra il rio Foscari e Santa Chiara, i regatanti si vedono due volte, cioè all’andata e al ritorno. E realmente il ritorno può serbare non piccole sorprese, e tale che chi era primo diventa secondo, e tal altro che pareva ormai fuori d’ogni speranza accenna a conquistarsi valorosamente la sua bandiera. Ma questa volta gl’intenditori dicevano chiaro e tondo che a Nane Bisatto il primo premio non lo portava via neppure il Padre Eterno, giacchè c’era troppa distanza tra lui e il gondolino di Tita Oliva, ed era già molto se quest’ultimo poteva mantenersi il secondo e non esser sorpassato dal gondolino N. 4, quello dove c’era Menico Fichetti da Pellestrina, un giovine piccolo e sottile, ma che aveva nervi d’acciaio.

      Questi discorsi si tenevano anche nel barcone ch’era fermo all’imboccatura del rio sotto il palazzo, e Fortunata che aveva preso tanto a cuore la causa di Tita, si metteva nei panni di lui e aveva una gran voglia di piangere.

      La contessa Zanze, la contessa Ficcanaso e don Luigi erano in disposizione d’animo affatto diverse, e, poichè il fiasco del barcajolo veniva a ricader sui padroni, ne provavano una segreta esultanza, che non esprimevano apertamente, ma che lasciavano trapelare. Don Luigi faceva delle riflessioni filosofiche sulla caducità delle cose umane, sullo sperpero del danaro pubblico e privato in feste e in bagordi e sul poco giudizio che c’era a distrarre i ragazzi dagli studi per farli andare sulle bissone.... Con quella voglia che avevano di studiare! Le due contesse assentivano appieno alle savie parole del sacerdote, tanto più che il servo aveva presentato loro il vassoio dei dolci quando tutti s’erano già preso il buono e il meglio, e ciò le aveva esacerbate fuor di misura.

      Ma il dialogo fu troncato dal riapparire dei regatanti. Ora, la finestra sul rio guardava precisamente verso la parte dalla quale i gondolini tornavano, e Fortunata vide ben presto che il viola continuava ad essere il primo e aveva aumentato anzichè diminuito l’intervallo che lo separava dagli altri. Il valore di Nane Bisatto aveva finito ormai col trascinare i più restii, e, con una volubilità che afflisse e irritò Fortunata, parecchi tra i fautori del suo protetto si unirono anch’essi a quelli che applaudivano l’eroe della giornata. Ma quel che è peggio, il gondolino rosso non era più nemmeno il secondo, non era nemmeno il terzo; era il quarto, quello a cui era destinato l’ultimo, premio, la bandiera gialla e il relativo porcellino, quasi un’onta per Tita, avvezzo ai primi trionfi. Povero Tita! Egli non osava alzar la testa, vogava per l’onor delle armi, ma avrebbe preferito esser sott’acqua lui e il suo gondolino, piuttosto che sentire tutti quegli sguardi fissi sopra di sè, piuttosto che passar davanti al palazzo dove c’erano i padroni e tanti ospiti d’alto affare. Tita non si ricordava in quel momento di Fortunata, oppure ell’era la sola che, pensando alla sua umiliazione, aveva gli occhi pieni di lagrime. I padroni invece erano irritatissimi, dicevano che Tita non era più buono a nulla, e che aveva compromesso il decoro della casa, e che meritava d’essere strapazzato senza misericordia.

      Questo incidente fece sì che in palazzo Bollati si gustasse meno l’ultima parte, pur così bella, dello spettacolo, quando cioè tutte le barche prima raccolte, ristrette ai due lati del Canal grande, pigliano il largo e formano un suolo galleggiante che copre e nasconde la superficie dell’acqua. È per solito l’ora del tramonto, e gli ultimi raggi del sole scintillano sui ferri bruniti delle gondole, sfolgorano con bagliori d’incendio sui vetri delle finestre, danno risalto alle dorature e alle stoffe colorate delle bissone, alle livree dei gondolieri, agli abbigliamenti delle signore, alle vesti chiassose delle popolane. Ed è un suono di musiche allegre, un vociare confuso, uno strepito di remi che si urtano, di ferri che cozzano, di carene che scricchiolano. Indi cala lento lento il crepuscolo, la folla si disperde, il rumore a poco a poco svanisce, e il Canalazzo ritorna nell’usato silenzio.

      Frattanto, giù nell’entratura di Cà Bollati, Tita sedeva accasciato sopra una panca, e non sapeva risolversi a salir dalle loro Eccellenze dopo lo smacco subìto. Parecchi amici e compari gli facevano corona e si sforzavano di calmar la sua agitazione e di persuaderlo a presentarsi ai padroni con la faccia franca, chè già non l’avrebbero mica mangiato vivo seppure una volta la fortuna gli era stata contraria. In quel gruppo di confortatori c’erano anche alcune donnette, una sua sorella tra l’altre, bel tipo di veneziana da Cannareggio, con certi occhi neri e lucenti come due carboni e con una parlantina inesauribile.

      —Oh, corpo de diana—ella diceva al fratello—vorrei anche vedere che ti trattassero con mala grazia. Io risponderei: Lustrissimi, credono che a vogare in regata sia lo stesso che a starsene lunghi distesi con la pancia in giù sui cuscini d’una bissona?... Eh, non ho peli sulla lingua io....

      Tita s’impazientiva.—I rimproveri dei padroni sono il meno... È l’amor proprio.

      —To’, non la può mica andar sempre bene... Una volta corre il cane e l’altra il lepre... È stato così dacchè mondo è mondo.

      —Siora Cate ha ragione—soggiungeva un vecchio gastaldo d’un traghetto vicino, persona assai autorevole—non c’è ragione di tribolarsi... E lascialo dire a chi se ne intende... Bisatto non è degno d’allacciarti le scarpe... E se ha vinto oggi, a rivederci domani.


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