La famiglia Bonifazio. Caccianiga Antonio

La famiglia Bonifazio - Caccianiga Antonio


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santa pace, ma che la mano ferrea dell'Austria saprà conservare sotto le armi, e slanciarli alla facile riconquista d'un popolo disarmato.

      Il maestro Zecchini che era stato pronto a metter fuori del balcone la bandiera tricolore, ascoltava attentamente i discorsi del capitano Bonifazio, li trovava molto ragionevoli, si pentiva dell'entusiasmo dimostrato nei primi giorni, ed alla prima pioggia ritirò la bandiera per non sciuparla, ma dopo tornato il sole finse di dimenticarla in un angolo della casa; avrebbe voluto anche sopprimere la coccarda, ma chi non la portava era creduto una spia, ed arrischiava la pelle. Egli prese il suo partito; si mostrava taciturno coi sospetti, modesto coi timidi, audace cogli esaltati, gridava cogli urloni, declamava coi barbassori, e abbondava nel senso di tutti per vivere d'accordo con ciascheduno.

      Il capitano Bonifazio si recò a Treviso coi figli per prendere le armi contro il nemico.

      Trovò il governo provvisorio composto di tredici persone (cattivo numero!). Mancava il denaro, quantunque ci fossero due ministri di contabilità e finanze; mancavano le armi e i soldati, ma c'erano due incaricati alla milizia e un ministro [pg!58] di diplomazia e guerra, un abate all'istruzione pubblica, un canonico al culto, un avvocato alla consulta, due ingegneri alle pubbliche costruzioni, un avvocato all'amministrazione comunale, un altro alla Polizia, e l'avvocato Presidente del governo, per mettere in moto questa gran macchina provinciale, e governare un popolo che non contava novantamila abitanti.

      E pubblicavano, dice uno storico contemporaneo, «annunzi, disposizioni, decreti, proclami, consigli a tenore delle circostanze, mostrandosi però sempre sicuri nel buon esito dell'impresa.» (Semenzi).

      La città era in festa, le case pavesate, le contrade illuminate, l'entusiasmo dei cittadini si manifestava in mille forme diverse. E così avvenne in ogni città e borgata del Lombardo-Veneto liberato dagli stranieri. Ma le aberrazioni della gioia furono brevi, sufficienti però a dimostrare all'Europa l'odio degli Italiani per il dominio straniero.

      Provenienti da varie regioni d'Italia entravano in città le più bizzarre milizie, in costumi pittoreschi: elmi romani e medioevali, pennacchi napoleonici, durlindane dell'Orlando furioso, fiocchi, galloni, giacche di tutte le parti del mondo, cappelli calabresi, romagnoli, trasteverini, napolitani e siciliani. [pg!59]

      Il capitano Bonifazio fu subito nominato istruttore e organizzatore della milizia, i suoi figli si arruolarono nei volontari, i quali ignoravano ancora il mestiere del soldato, quando furono mandati ad affrontare i primi scontri dell'esercito austriaco che scendeva dal Friuli, preceduto dei soliti Croati.

      Giovani studenti trasformati repentinamente in artiglieri, operai divenuti fantaccini in pochi giorni, resistettero intrepidamente al primo fuoco, si batterono con coraggio, e sparsero il loro sangue per la libertà.

      I Tedeschi bombardarono Treviso, che dopo la coraggiosa resistenza ottenne una delle capitolazioni più onorevoli delle guerre di indipendenza. Quei giovani soldati uscirono dalla città cogli onori militari, conservando le armi e i bagagli, con due pezzi di cannone, regalati dal generale austriaco «in contrassegno della particolare sua stima per la buona condotta durante il combattimento, e perizia nel maneggio delle armi.» (Capitolo III della Capitolazione). «I sudditi austriaci arruolati nelle truppe italiane, saranno considerati come emigrati.»

      Ed ecco che cominciava una nuova iliade di mali per gli Italiani, e la nazione tornava ad essere [pg!60] invasa ed oppressa dalle forze preponderanti degli invasori stranieri.

      Mentre le milizie italiane uscivano dalla porta Santi quaranta (ora Cavour), gli Austriaci entravano dalla porta di San Tommaso (ora Mazzini).

      Nella villa suburbana del capitano Bonifazio la povera Maddalena restava sola a piangere la partenza del marito e dei figli, che non aveva potuto abbracciare.

      Il maestro Zecchini e Mosè cercavano invano di consolarla facendole credere che sarebbero presto ritornati, ma il suo cuore di donna la avvertiva che i suoi cari starebbero assenti lungamente, esposti a mille pericoli; e al suo dolore di moglie e di madre si aggiungeva quello di buona italiana, che vedeva la patria rioccupata dagli stranieri.

      Quale solitudine, qual vuoto in quella casa, e in quel parco dopo la partenza de' suoi cari! Una parte della cavalleria austriaca aveva preso alloggio nelle case di campagna intorno la città, le scuderie erano piene dei cavalli nemici, e i soldati inquieti andavano e venivano con volti arcigni e truce aspetto.

      Ecco il santuario domestico invaso dagli stranieri, che non hanno nulla di sacro nel paese conquistato. Si prendevano le frutta come fossero [pg!61] in casa propria, calpestavano le colture, legavano agli alberi i cavalli che coi denti rosicchiavano le corteccie.

      Maddalena che conosceva la passione del marito e dei figli per quelle belle piante, allevate con tante cure, piangeva disperata per non poter arrestare quella devastazione.

      Il maestro Zecchini trovò il modo di rendersi utile alla povera donna ed agli amici assenti, andando a parlare ad un colonnello che cercava un comodo alloggio in mezzo ai suoi soldati. Gli si presentò col cappello in mano, in attitudine riverente, e gli disse:

      —Se Vostra Eccellenza desidera un magnifico alloggio non ha che comandarmi; io sono il maestro del villaggio, e non ho altro desiderio che quello di servirla bene.

      Il colonnello volle vedere, lo seguì, e fu soddisfattissimo; e quando fu bene installato accolse con benevolenza un rispettoso reclamo che gli fu fatto dal maestro in favore degli alberi del giardino.

      I soldati coi cavalli ricevettero l'ordine di sgombrare immediatamente, e di ritirarsi nelle adiacenze, con l'obbligo di mai più mettere i piedi nel parco, e una sentinella fu collocata in sito opportuno colla consegna di non lasciar passare alcuno, e di sorvegliare la proprietà. [pg!62]

      Partito quell'ufficiale superiore ne venne un altro dello stesso grado, e così di seguito. La tradizione conservò l'abitudine dell'alloggio riservato, e così fu preservato dalla devastazione quel delizioso soggiorno.

      Ma intanto i proprietari vagavano raminghi per le terre d'Italia, invase per ogni parte da eserciti nemici.

      Milano ricadeva in mano dell'Austria, e tutto il sangue sparso dagli Italiani in quei mesi di lotta e di ansietà non valse a liberarli dalla invasione.

      La sola Venezia resisteva eroicamente, e i Bonifazio si recarono colà, per contribuire alla difesa.

      Le vicende dell'assedio di Venezia sono forse la più bella pagina nella storia della nostra emancipazione.

      Questa gloriosa città, tradita ed oppressa, che si ridesta alla libertà, dopo l'umiliazione del dominio straniero, che lacera e insanguinata si difende contro un nemico potente, combatte valorosamente, intrepida fra le rovine delle fortificazioni, che estenuata dalla fame, decimata dal coléra e dalle bombe, decide di resistere ad ogni costo, offerse un esempio di tale fermezza indomabile, che le guadagnò l'ammirazione del mondo. [pg!63]

      I Bonifazio furono fra quelli eroi che presero parte alla sortita di Mestre, e che difesero Marghera fino che fu ridotta ad un mucchio di rovine. Ma il vecchio soldato di Napoleone fu il solo che potè ritirarsi incolume in città dopo di aver combattuto per tanti giorni in mezzo ad un diluvio di palle.

      Gervasio rimasto fra gli ultimi sulla breccia fu ferito alla mano destra e Stefano ebbe una gamba traforata da una palla; e passarono gli ultimi tempi dell'assedio all'ambulanza.

      Finito l'ultimo pane nero, e l'ultima carica di cannone, Venezia dovette cedere senza esser vinta.

      Al momento della capitolazione i due fratelli erano ancora convalescenti. Tennero consiglio col padre, il quale pensando alla povera donna che non li aveva visti da più d'un anno, desiderava che volessero tornare entrambi a casa con lui. Per Stefano non ci poteva esser dubbio, poichè non era in caso di tenersi in piedi senza l'aiuto d'un bastone, ma Gervasio storpiato alla mano destra si rifiutò recisamente di ritornare a vivere sotto il governo austriaco, preferì di condannarsi all'esilio. Il padre non volle insistere, nella speranza d'un pronto risveglio della nazione e d'un ritorno alle armi. [pg!64]

      La separazione fu dolorosa. Gervasio s'imbarcò in un bastimento


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