Tempesta e bonaccia: Romanzo senza eroi. Marchesa Colombi

Tempesta e bonaccia: Romanzo senza eroi - Marchesa Colombi


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saputo strapparsi spontaneamente a quella suprema gioia.

      Un momento prima sentiva che quella donna mi amava; l'avrei giurato pel cielo e per la terra. Ed ora, a due passi di distanza, rinascevano tutte le mie dubbiezze. E pensavo:

      —Forse quello ch'io credetti lo slancio irresistibile della passione, non fu che un atto di civetteria. Forse l'avrebbe fatto con un altro come lo fece con me. Infine una stretta di mano non può avere che un valore relativo. Ogni giorno ella stringe la mano a tutti i suoi conoscenti… Fui uno sciocco a lusingarmi per una stretta di mano… Oh! una stretta di mano! Furono molte strette, e furtive! È ben altra cosa. No; senza un grande e prepotente amore, una donna non può far violenza al proprio ritegno fino a stringere furtivamente la mano d'un giovane, che non sa ancora se l'ami. È bensì vero ch'ella doveva saperlo. E tuttavia ecco che se ne va via con indifferenza, e parla e scherza con Giorgio; forse in questo momento stringe la mano a lui come l'ha stretta a me… Oh, le artiste! Chi può mai dire se un'artista è una donna come un'altra? Chi sa? Forse è un'avventuriera; forse ha già avuto dieci amanti… Ed io me ne stavo innamorando! Eh via! Fu un'aberrazione, uno scherzo; ne riderò per un pezzo. E rientrai perchè la commozione mi serrava la gola; se fossi rimasto solo avrei pianto.

       Indice

      I miei amici stavano congedandosi da Fulvia.

      —Domani, ella diceva, non riceverò nessuno sino alle quattro; perchè voglio studiare, e loro mi fanno perdere tutto il mio tempo.

      —Dunque verremo alle quattro, disse Giorgio.

      Io pure le porsi la mano in atto di saluto, e, trattenendo la sua, domandai:

      —Ed io, a che ora debbo venire?

      Comprese ella l'impertinenza di quella domanda, che rilevava a tutti che io mi credeva in diritto di aspirare ad una preferenza? Comprese ella, che agivo con lei, artista, come non avrei mai agito con nessun'altra signora? Comprese che, stupido e vile, la insultavo senza ragione?

      Forse lo comprese, e lo perdonò al mio amore, inasprito dalla presenza altrui, che mi strozzava in gola la suprema parola; o forse il suo animo eletto non sospettò neppure la viltà del mio pensiero, e, sentendosi superiore ad ogni insulto, non pensò che altri l'insultasse. E non interpretò nella mia domanda, che il desiderio di vederla più presto, e la speranza d'essere distinto dagli altri. Ella rispose:

      —Venga alle quattro.

      Ma le sue parole soltanto dicevano così; e la sua voce invece, e la sua mano che premeva la mia, rispondeva:

      —Vedi bene che non posso dirti, presente altri, di venir prima; ma vieni presto, perchè ti amo.

      Fulvia, cara donna del mio cuore, hai tu udita dalla tua stanza solitaria la mia voce commossa mandarti un canto? Era il canto del pentimento, era una preghiera di perdono ch'io volgeva alla lealtà dell'anima tua. E tu mi perdonasti; ed io stesso mi perdonai, perchè, se il primo pensiero avvezzo a prendere norma ne' suoi giudizi dalle convenzioni sociali ha potuto insultarti, il mio cuore ti amava, Fulvia; ti amava col caldo trasporto d'una passione che poteva guardare senza spavento e senza rimorsi il domani e l'avvenire; ti amava di quell'amore impetuoso e vero, e che a tutto sovrasta e tutto purifica.

      Per lunghe ore m'aggirai nelle contrade buie e silenziose adiacenti all'Albergo Milano, mandando alla notte ed a lei canti d'amore.

      Il mio cuore nuotava in un'onda di dolcezze, aspirava soavemente la delizia di sentirsi amato. Ma il mio pensiero irrequieto precorreva con impazienza il domani; preparava il primo incontro ed il correr muto delle nostre braccia a stringerci l'uno all'altra, e l'irrompere delle ferventi parole, per tanta ora frenate in quella sera.

      Passai una notte agitatissima, tormentato da ardenti fantasie. Mi pareva che all'alba volerei da Fulvia.—Ma colla luce venne la ragione, e vidi l'assurdità di comparire alle sei del mattino in casa di una signora, senza averne l'ombra di un diritto.

      Il sonno mi opprimeva, ed il mio capo, affaticato da quella veglia affannosa, aveva bisogno di riposo. Nascosi il volto nel guanciale, e, dopo una breve lotta co' laboriosi pensieri che mi si agitavano, sebbene affievoliti, nella mente, il sonno la vinse.

      Mi risvegliai alle dieci, cogli occhi riposati e la mente tranquilla. Tuttavia ero ancora un po' assonnato, e dinanzi a quella prepotente esigenza fisica tacque l'impazienza del desiderio morale, e sonnecchiai fino alle dieci e mezzo.

      Ma tra il sonno e la veglia, l'immagine della donna amata mi tornò al pensiero, e si fece a grado a grado più viva, sicchè l'ansia di rivederla e di sentir dal suo labbro che mi amava, e di dirglielo, mi si riaccese ardentissima in cuore. Mi levai, ed alle undici mi fermavo alla sua porta, anelante pel battito accelerato del cuore.—Giungevo trionfante e sicuro come un conquistatore; ma all'atto d'entrare fui imbarazzato del mio contegno; compresi che tutte le scene che mi ero figurate nella notte erano assurde; che in realtà non avevo nessuna ragione seria di credermi amato; che sotto pena di ridicolo, non potevo presentarmi che precisamente come mi ero presentato tutti gli altri giorni.

      Pensai anche una scusa per giustificare quella visita mattutina; e so d'averla trovata; ma non me ne valsi, e la dimenticai completamente.

      Fulvia stava studiando, e faceva sul pianoforte una scala cromatica. La porto profondamente scolpita nella memoria, e mi è impossibile di ripensare a quel giorno senza che quella scala cromatica mi risuoni all'orecchio.

      Bussai alla porta, ed il suono cessò.—La voce di Fulvia disse: «Avanti!» Non era punto commossa. Certo credeva che fosse un cameriere dell'albergo.

      Ella, naturalmente, non soleva alzarsi da sedere quando entravano uomini; ma quella mattina si alzò, e mi venne incontro.—Non so se quella notte avesse fatto come me progetti appassionati; ma certo a quell'ora aveva pensato al par di me che dovevamo incontrarci coi modi semplici e contegnosi degli altri giorni. Oh, la tirannia delle convenienze!

      —Come va, caro signor Guiscardi?—mi disse stringendomi la mano. Mi guardai intorno per vedere chi fosse il signor Guiscardi. A forza di pensare che dovesse chiamarmi Max, avevo dimenticato il mio cognome. Quel saluto mi suonò gelido, e ne fui sbalordito.

      —Buon giorno! buon giorno, Fulvia; le risposi con aria affaccendata guardando il soffitto.

      Fulvia m'invitò a sedere accanto a sè; mi fece varie interrogazioni che non compresi, e certo vi risposi a sproposito. Ella voleva sembrare calma, ma era evidentemente turbata. Quell'alzarsi, per venirmi incontro, aveva tradito il suo imbarazzo. Il suo sguardo sfuggiva il mio, e le sue domande si succedevano con assurda rapidità senza aspettare le risposte. Si sarebbe detto che non volesse lasciarmi tempo a dire qualche cosa che temeva di udire.

      Alzandosi dal pianoforte aveva preso in mano gli esercizi di Kramer che stavano sul leggìo, e continuava a sfogliarli, ed a protendere il capo per leggere a quando a quando una nota in una pagina socchiusa, come se quella fosse l'argomento dei nostri discorsi.

      E tutto ciò faceva per non guardarmi in viso; ma io era felice, perchè sentivo che, al primo incontrarsi dei nostri sguardi, quella momentanea commedia sarebbe diventata impossibile; ci saremmo trovati in faccia alla realtà;—e la realtà era il nostro amore.

      Ed intanto parlavamo molto. Ci prendevamo la parola l'un l'altro, e parlavamo tutti e due ad un tempo.

      In un momento ch'ella aveva posato il suo fascicolo chiuso sulla tavola, e vi teneva sopra la bella mano, io posai sovr'essa la mia, timidamente. Ma a quel contatto il battito del mio cuore perdette ogni misura, chinai il volto su quella mano, e vi impressi un bacio. E tutti e due eravamo ammutoliti.

      Giammai avevo provato una simile dolcezza.—Le andavo ripetendo senza posa:—Mi amate, Fulvia? Mi amate?

      —Oh, lo vedete bene! mi rispose evitando i miei occhi che cercavano i suoi.

      —Oh, ditelo, Fulvia; ditelo voi!

      —Ebbene….


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