Tempesta e bonaccia: Romanzo senza eroi. Marchesa Colombi
Max, ti amo!
Oh, quel tu, e quel nome pronunciati da lei, mi inebriarono. Perdetti ogni facoltà di ragionare, e prendendole il capo fra le mani, posai le labbra sulla sua fronte.
In quel momento il mio sguardo doveva esprimere tutto il trasporto che avevo in cuore.
La povera giovane ne ebbe paura, e con voce tremante mi disse:
—Se è vero che mi amate, sappiate rispettarmi, Massimo.—Pensate che sono sola.
Questa parola mi richiamò in me stesso, e ad un tempo mi atterrì. Mi staccai precipitosamente da lei, e la guardai per leggere sul suo volto quanto vi fosse di verità in quella preghiera.
Avevo completamente dimenticato che Fulvia era un'onesta giovane; e la mia immaginazione fantasticava già un amore senza ostacoli e senza freno. Quella voce mi ricordò la realtà; ebbi paura di me.
In quel momento provai un grande imbarazzo. Avevo trent'anni ed avevo molto amato. Pure era la prima volta che mi trovavo in faccia ad un amore puro. Un istante pensai.
Essere amato da un'artista, che viaggia sola,—e rispettarla; e filare il sentimento come un collegiale.—Sarebbe ridicolo!
E tradussi codesto pensiero mefistofelico in uno sguardo pieno d'ironia.—Ma i miei occhi si scontrarono con quelli di Fulvia che, attonita del mio silenzio, mi interrogava collo sguardo. Quegli occhi erano pieni di lagrime, ed il suo volto era arrossito come non può arrossire che una donna onesta.
Il mio sguardo ed il mio cuore ridivennero buoni; la vidi e la credetti pura, ed ebbi fede in lei. Le presi la mano, e con sincerità profonda le dissi:
—Come farò a rispettarvi, Fulvia? Ora che so che mi amate!
—Amandomi molto e davvero, mi rispose.
—Ma io non so amare per metà.
—Io v'insegnerò; non ad amarmi per metà, ma a resistere al vostro stesso amore; e quando voi sarete debole, io sarò forte per tutti e due.
M'inginocchiai accanto a lei. Il mio cuore era profondamente commosso, ed il mio pensiero vagava in un'onda di contento indeterminato.
Continuavo a baciare con trasporto le sue mani, e le domandavo ancora, ed ancora:
—Mi amate, Fulvia?
—Pur troppo, vi amo—mi rispose con voce soffocata.
A quelle parole, dolorose per me, la guardai negli occhi;—erano gonfi di pianto.
—Perchè dite pur troppo? Perchè piangete? Vi dispiace di amarmi?
—Sì, mi rispose piangendo.
—Ma perchè? Cosa v'ho fatto, Fulvia? Siete scontenta di me?
—Non di voi, Massimo; di me sono scontenta. Avrei dovuto combattere codesto amore; nasconderlo; fuggirvi. Sono stata troppo debole; e voi troppo appassionato: fui troppo facile a svelarlo.
—Oh, non lo dite! esclamai. È tanto tempo che io vi amo; che ve lo faccio comprendere.—E le schierai una quantità di soavi ricordate? rammentandole ad una ad una le mie mute dichiarazioni, i miei trasporti, le mie speranze, le mie smanie, le mie gelosie…
Ella mi ascoltava senza cessare di sospirare e di piangere. Erano le lagrime che si danno ad un cadavere da cui si è sul punto di separarsi per sempre.
Finalmente mi disse:
—Che avrete pensato di me ieri sera, quando io strinsi furtivamente la vostra mano? Se sapeste come ho sofferto tutta notte ripensando a quell'atto! Come me lo rimproverai!
—O Fulvia!—Fui così felice in quel momento; non lo rimpiangete. Quello slancio impensato è una prova della vostra lealtà. Voi non conoscete le arti di fingere un'indifferenza provocante, per invitare l'amore a rivelarsi.—Amate e lo lasciate comprendere. Siete buona e sincera.—Non istate a pentirvene; non vi dolete d'avermi fatto felice.
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