Arrigo il savio. Anton Giulio Barrili
a questo modo?
— Non badi; — rispose il conte. — Si tratta di capricci, di ubbìe femminili. La contessa stima molto il mio amico Valenti, ma le pare troppo serio, troppo asciutto, e che so io. Del resto, mio caro Arrigo, penso anch'io che Giovanna abbia un po' di ragione. Siete troppo grave, troppo asciutto, troppo savio, per la vostra età. Si direbbe che non siate mai stato giovane.
— Proverò a diventarlo poi; — rispose Arrigo, sorridendo pacatamente, come un dio dell'Olimpo.
— Ah, meno male! Venite dunque?
— Conte, quest'oggi è impossibile. Mio zio è arrivato stamane.
— È vero, non ci avevo pensato; bisogna star con lo zio. Ma più tardi, almeno, per il tè? Presentiamo lo zio alla contessa, e son certo che le piacerà più del nipote. Accetta, signor Gonzaga?
— La bandiera ha dunque da coprire la merce? — disse lo zio Cesare. — Bandiera vecchia, ahimè! —
Il conte fece una spallucciata, a quelle parole del Gonzaga.
— Vecchia? Eh via! — esclamò. — C'è egli dei vecchi tra noi, se escludiamo suo nipote? Badi, dunque, annunzio la sua visita. Ella troverà molta gente, quel che ci vuole per esser più liberi. Avremo parecchie tra le celebrità femminili di Roma, che, in punto di donne, ha sempre l'impero del mondo; per esempio la Savelli, bellezza stagionata, se vogliamo, ma solida; la Carini, che è sempre tanto carina; la Manfredi, che è un fiore appena sbocciato.... —
Arrigo a quel punto interruppe la rassegna, che poteva diventar lunga come quella delle navi, in Omero.
— Verranno i Manfredi? — diss'egli. — Senti, zio? Ecco una buona occasione per te. —
Lo zio Cesare, che quel lieve accenno ad un fiore appena sbocciato aveva già fatto fremere, sollevò lentamente il petto, come per chiuder la via ad un sospiro; poi crollando la testa, rispose:
— Ti pare? Non ho ancora veduto Andrea.
— Conosce il senatore Manfredi? — gridò il conte Morati di Castelbianco. — Un uomo d'oro, al proprio e al figurato!
— Se lo conosco! — rispose Cesare Gonzaga, mettendo quella volta liberamente il sospiro che aveva trattenuto da prima. — Andrea Manfredi fu il mio amico di gioventù, il mio compagno di studi, il mio fratello d'armi. Abbiamo combattuto insieme, in questa Roma divina! Che direbbe ella dei fatti miei, signor conte, se io, amico suo da tanti anni e ritornato finalmente nella città dov'ella abita, la dovessi combinare in casa d'altri, senza esser venuto direttamente, prontamente, a cercarla?
— Eh via, zio! — entrò a dir Arrigo. — Ci vai dopo colazione, e il colpo è fatto.
— Arrigo consiglia bene, come sempre; — notò il conte. — È veramente Arrigo il savio; lo ascolti. Siamo dunque intesi; a rivederla questa sera, e lietissimo della fortunata occasione. Addio, Arrigo! Vado dal ministro delle finanze, per quella pariglia che mi sta sul cuore.... come quel piedino di fata.
— Sempre? — disse Arrigo, ridendo per quella volta liberamente.
— Che ci volete fare? Sono un povero peccatore che il diavolo ha sempre pigliato dai piedi. —
E se ne andò, ridendo della sua frase, che gli era parsa argutissima.
Rimasto solo con Arrigo, il vecchio Gonzaga si piantò davanti al nipote e gli ficcò addosso gli occhi scrutatori.
— Dimmi, Arrigo.... il piedino di via Sallustiana....
— Non mi chieder nulla, zio; — rispose quell'altro. — Il Castelbianco mi aveva fatto da principio una gran paura. E adesso, poi, adesso che son vicino a ricogliere il fiato!... Se tu non fossi venuto quest'oggi, direi che è un giorno nefasto.
— Ma lui.... il conte....
— Corteggia le ballerine, le mime, le cavallerizze. Ha sessant'anni e tinge disperatamente. È una caricatura.
— Eh, l'ho veduto. E facendo ridere, il che è già brutto, va anche in rovina?
— Non lo credere; — rispose Arrigo. — È un suo vezzo di parlare così, un ticchio di gran signore. Ne ha spesi molti, in gioventù, ma ancora oggi può valere un paio di milioni. Ed è conte.
— Che cosa vuol dire?
— Vuol dire moltissimo, zio. Anzi, vedi, ti prego di non incocciarti nella tua democrazia, che fa a pugni col tuo casato. Qui il disprezzo dei titoli non è di moda. Chi ne ha uno lo inalbera; chi non l'ha lo inventa. I titoli nobiliari son tutto, perfino negli affari, ove non dovrebbero aver valore che quelli di banca. Non si fa un consiglio d'amministrazione di miniere, di strade ferrate, di vapori e via discorrendo, che non ci mettano una mezza dozzina di corone. Non fanno nulla; ne ho sentiti io che dicevano cose... dell'altro mondo; ma non importa, ci stanno bene, decorano. Ed anche nelle livree, senti, una corona non guasta.
— Che follìe! — esclamò il Gonzaga.
— Follìe! — Lo dici tu, che ritorni dall'India. Ma il nostro mondo occidentale è fatto così; prendiamolo com'è. —
Il vecchio Gonzaga stette alquanto sopra di sè; poi disse, con accento malinconico:
— Arrigo, Arrigo, sei tu che parli così? La nobiltà del sentire e dell'operare, quella è la vera. Anch'io amo i bei nomi.... quando sono portati bene da non degeneri nipoti. Ma poi, vedi, la penso come Isocrate. Ti parrà strano che io venga dall'India per citarti Isocrate; ma non ti stupire, è un ricordo di scuola. Per Isocrate, adunque, la nobiltà risiedendo tutta nel capostipite e derivando da lui, valeva meglio che l'uomo fosse egli capostipite della propria. Chi erano gli antenati di Pipino d'Heristal? Se ne conosce uno, uomo dappoco, e solo da Pipino d'Heristal incomincia il lustro dalla casata. Aggiungi a questo Pipino la gloria di altri due nomi, Carlo Martello e Carlo Magno, perchè io ti ho voluto citare l'esempio più favorevole alla tua tesi; e che cosa vien poi? che cosa rimane della stirpe nobilissima? Un branco di sciocchi. Dunque, ragazzo mio, non ci vantiamo tanto di una nobiltà che non è discesa “per li rami„ e cerchiamo invece di fabbricarcene una, che sia ben nostra, e frutto di azioni virtuose. —
Arrigo Valenti non la intendeva così.
— Parole! — mormorò egli. — Ma nel fatto....
— Orvia, non voglio sentir altro! — gridò Cesare Gonzaga, che incominciava a perdere la pazienza. — Vedi, Arrigo, se tu non amassi, la qual cosa mi riconcilia un pochino con te, ti crederei diventato cattivo.
— Amo, sì! — disse il giovane, — e appunto perciò ti ho pregato di venire a Roma.
— Alla buon'ora! E in che modo potrei servirti io?
— Presentandomi in casa Manfredi.
— Oh! — disse lo zio, inarcando le ciglia. — E dovevo venir io a bella posta dall'India?
— Come per citarmi Isocrate, sicuro. Ecco qua, zio, lo stato delle cose. Il senatore Manfredi è molto sostenuto con me. Con tutte le mie relazioni, con tutti i miei denari, non mi riesce di penetrare in quella casa. Ci troviamo spesso insieme, ora in una conversazione, ora in una festa da ballo; ma niente mi serve; il banchiere senatore è sempre di ghiaccio con me, ed io non ho potuto ancora rompere quel ghiaccio. —
Cesare Gonzaga era stato a sentire attentamente il discorso di suo nipote. Appena questi ebbe finita la sua esposizione, il vecchio rimase un pochino sovra pensiero, masticando qualche frase, che stentava ad uscirgli di bocca.
— Parliamoci schietto; — diss'egli finalmente. — Saresti in qualche cosa venuto meno a certi principii?... Andrea, se è sempre l'uomo che io ho conosciuto, su certe materie non ischerza.
— Zio, — rispose Arrigo con accento sicuro, — non ho mai fatto cosa di cui debba arrossire. Ho imparato da ragazzo a meditare sulle mie azioni, e se sono venuto al punto di non far mai se non quello che metteva conto a me, credi pure che ci sono riuscito senza offendere il diritto degli altri. Il Manfredi non mi ha in grazia. Perchè? Lo saprà lui; fors'anche non