Le vergini delle rocce. Gabriele D'Annunzio

Le vergini delle rocce - Gabriele D'Annunzio


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è il tuo cómpito: — condurre con diritto metodo il tuo essere alla perfetta integrità del tipo latino; adunare la più pura essenza del tuo spirito e riprodurre la più profonda visione del tuo universo in una sola e suprema opera d'arte; preservare le ricchezze ideali della tua stirpe e le tue proprie conquiste in un figliuolo che, sotto l'insegnamento paterno, le riconosca e le coordini in sè per sentirsi degno d'aspirare all'attuazione di possibilità sempre più elevate.

      Allora, avendo così lucida dinnanzi a me la tavola delle mie leggi, io conobbi non soltanto la tristezza del dubbio ma un'ansietà che somigliava alla paura, un'ansietà nova e orribile. “Se una violenza cieca e impreveduta delle forze esteriori urtasse difformasse infrangesse la mia opera! Se io dovessi piegarmi e soggiacere a un sopruso bestiale del Caso! Se il mio edificio crollasse, prima della coronazione, per uno di quei soffii deleterii che all'improvviso irrompono dal buio!„ Questa paura io conobbi, in una strana ora di smarrimento e di abbattimento sentendo vacillare la mia fede. Ma poco dopo n'ebbi vergogna, quando l'ammonitore mi disse: “A giudicarne dalla qualità dei tuoi pensieri, tu sembri contaminato dalla folla o preso da una femmina. Per avere attraversato la folla che ti guardava, ecco, tu già ti senti diminuito dinnanzi a te medesimo. Non vedi tu gli uomini che la frequentano divenire infecondi come i muli? Lo sguardo della folla è peggio che un getto di fango; il suo alito è pestifero. Vattene lontano, mentre la cloaca si scarica. Vattene lontano, a maturare tutto quel che hai raccolto. Verrà poi la tua ora. Di che temi? Che varrebbe tanta disciplina se non ti rendesse più forte delle cose? Tu non dovrai invocare dalla fortuna se non l'occasione; ma pur questa è possibile talvolta, con la volontà, crearla. Vattene lontano, dunque, mentre la cloaca si scarica. Non t'indugiare; non ti lasciar contaminare dalla folla, nè ti lasciar prendere da una femmina. Certo, tu hai bisogno di un'alleanza per fornire una parte del cómpito che hai assegnato a te stesso. Ma meglio è per te attendere e rimaner solo, pur anche uccidere la tua speranza è meglio che sottomettere la tua carne e la tua anima a un vincolo indegno. — Se la cosa amata è vile, l'amante si fa vile. — Bisogna che tu non dimentichi mai questa sentenza del tuo Leonardo, e che tu possa sempre rispondere superbamente come Castruccio: — Io ho preso lei non ella me„.

      Giusta scendeva l'ammonizione, in quell'ora. E senza indugio io mi disposi a partire dalla città infetta.

      Era il tempo in cui più torbida ferveva l'operosità dei distruttori e dei costruttori sul suolo di Roma. Insieme con nuvoli di polvere si propagava una specie di follìa del lucro, come un turbine maligno, afferrando non soltanto gli uomini servili, i famigliari della calce e del mattone, ma ben anche i più schivi eredi dei majorascati papali, che avevano, fin allora guardato con dispregio gli intrusi dalle finestre dei palazzi di travertino incrollabili sotto la crosta dei secoli. Le magnifiche stirpi — fondate, rinnovellate, rafforzate col nepotismo e con le guerre di parte — si abbassavano a una a una, sdrucciolavano nella nuova melma, vi s'affondavano, scomparivano. Le ricchezze illustri, accumulate da secoli di felice rapina e di fasto mecenatico, erano esposte ai rischi della Borsa.

      I lauri e i roseti della Villa Sciarra, per così lungo ordine di notti lodati dagli usignuoli, cadevano recisi o rimanevano umiliati fra i cancelli dei piccoli giardini contigui alle villette dei droghieri. I giganteschi cipressi ludovisii, quelli dell'Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la solennità del loro antico mistero sul capo olimpico del Goethe, giacevano atterrati (mi stanno sempre nella memoria come i miei occhi li videro in un pomeriggio di novembre) atterrati e allineati l'uno accanto all'altro, con tutte le radici scoperte che fumigavano verso il cielo impallidito, con tutte le negre radici scoperte che parevano tenére ancor prigione entro l'enorme intrico il fantasma di una vita oltrapossente. E d'intorno, su i prati signorili dove nella primavera anteriore le violette erano apparse per l'ultima volta più numerose dei fili d'erba, biancheggiavano pozze di calce, rosseggiavano cumuli di mattoni, stridevano ruote di carri carichi di pietre, si alternavano le chiamate dei mastri e i gridi rauchi dei carrettieri, cresceva rapidamente l'opera brutale che doveva occupare i luoghi già per tanta età sacri alla Bellezza e al Sogno.

      Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo delle memorie e della poesia. Perfino su i bussi della Villa Albani, che eran parsi immortali come le cariatidi e le erme, pendeva la minaccia dei barbari.

      Il contagio si propagava da per tutto, rapidamente. Nel contrasto incessante degli affari, nella furia feroce degli appetiti e delle passioni, nell'esercizio disordinato ed esclusivo delle attività utili, ogni senso di decoro era smarrito, ogni rispetto del Passato era deposto. La lotta per il guadagno era combattuta con un accanimento implacabile, senza alcun freno. Il piccone, la cazzuola e la mala fede erano le armi. E, da una settimana all'altra, con una rapidità quasi chimerica, sorgevano su le fondamenta riempite di macerie le gabbie enormi e vacue, crivellate di buchi rettangolari, sormontate da cornicioni posticci, incrostate di stucchi obbrobriosi. Una specie d'immenso tumore biancastro sporgeva dal fianco della vecchia Urbe e ne assorbiva la vita.

      Poi di giorno in giorno, su i tramonti — quando le torme rissose degli operai si sparpagliavano per le osterie della via Salaria e della via Nomentana — giù per i viali principeschi della Villa Borghese si vedevano apparire in carrozze lucidissime i nuovi eletti della fortuna, a cui nè il parrucchiere nè il sarto nè il calzolaio avevan potuto togliere l'impronta ignobile; si vedevano passare e ripassare al trotto sonoro dei bai e dei morelli, riconoscibili alla goffaggine insolente delle loro pose, all'impaccio delle loro mani rapaci e nascoste in guanti troppo larghi o troppo stretti. E parevano dire: “Noi siamo i nuovi padroni di Roma. Inchinatevi!„

      Tali, in fatti, i padroni di quella Roma che sognatori e profeti, ebri dell'ardente esalazione di tanto latino sangue sparso, avevano assomigliata all'arco di Ulisse. — Bisogna curvarlo o morire. — Ma quegli stessi uomini, i quali da lungi erano apparsi fiamme nel cielo eroico della patria non ancor libera, ora diventavano “carboni sordidi, buoni soltanto a segnare su i muri una turpe figura o una parola sconcia„, secondo l'atroce imagine d'un rètore indignato. S'industriavano anch'essi a vendere, a barattare, a legiferare e a tender trappole, nessuno più facendo allusione all'arco micidiale. E non pareva probabile, in verità, che a spaventarli si levasse d'improvviso il grido: “O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è già approdato in Itaca!„

      Ottimo consiglio era dunque il ritrarsi dallo spettacolo, per qualche tempo. E io partii con i miei cavalli e con le mie cose più familiari, senza commiati.

      Avevo scelto per soggiorno Rebursa, la prediletta delle mie terre ereditarie, prediletta già da mio padre come da me: rifugio favorevole a un'anima valida, paese dalle vertebre di roccia, disegnato con rara sobrietà e gagliardìa di stile: che poteva accogliere e nutrire il sogno imperioso della mia ambizione come aveva accolto e nutrito l'altera tristezza di mio padre dopo la caduta del suo Re e dopo la morte di Colei che vivente era parsa la luce della nostra casa, il nostro più sicuro bene.

      Anche, io aveva poco lungi di là — a Trigento — alcuni amici, non veduti da molti anni ma non obliati, a cui mi legavano grati ricordi della puerizia e dell'adolescenza. E il pensiero di rivederli mi rallegrava.

      Vivevano a Trigento, nell'antico palazzo baronale circondato da un giardino quasi vasto come un parco, i Capece Montaga: famiglia tra le più illustri e magnifiche delle Due Sicilie, caduta in rovina nei dieci anni che seguirono la disgrazia del Re, quindi ritiratasi a vita oscura nell'ultimo dei suoi feudi, in fondo alla provincia silenziosa. Il vecchio principe di Castromitrano — che aveva goduto i supremi onori alla corte di Ferdinando e di Francesco, e che aveva seguito fedelmente l'esule a Roma e oltralpe senza mai rinunziare alle suntuosità del tempo felice — sognava da anni nell'ombra e da anni invano aspettava la Restaurazione, mentre la sua canizie precoce andavasi chinando sempre più verso il sepolcro e la sua figliuolanza andavasi disfacendo nel tedio inerte. Soltanto la demenza della principessa Aldoina turbava la lunga agonia gittandovi sopra a sprazzi lo splendore fantastico del Passato. E nulla poteva eguagliare in desolazione il contrasto tra la realtà miserevole e i pomposi fantasmi espressi dal cervello della demente.

      Quella grande stirpe moribonda aggiungeva a quel paese di rocce una specie di funebre bellezza, per la mia anima che cercava già di raccogliere tutta l'anima inclusa nella chiostra lapidea. Mi nasceva


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