Il ritratto del diavolo. Anton Giulio Barrili
bravo, ragazzo mio, fatti avanti!—gridò egli.—Ti aspettavo. Eccoti in casa tua. Questi sono i tuoi compagni di lavoro; Tuccio di Credi, Parri della Quercia, Cristofano Granacci, Lippo del Calzaiolo, il Chiacchiera… cioè, diciamo prima il nome che ha avuto a battesimo, Angiolino Lorenzetti, e poi diremo quello che gli hanno appioppato le persone intendenti.—
Il giovane a cui erano presentati in quella forma gli scolari di mastro Jacopo, li salutò con un cenno grazioso del capo, indi soggiunse:
—Saremo amici, io spero.
—A voi, lasagnoni,—ripigliò maestro Jacopo,—salutate Spinello Spinelli, l'autore dei tocchi in penna che avete veduti poco fa. È un ragazzo che, se non si svia per cammino, farà parlare di sè.—
Gli scolari di mastro Jacopo s'inchinarono davanti a Spinello. Parri della Quercia gli stese la mano, dicendogli:
—Amico e fratello, se vi piace.—
Ma gli altri non si fecero così avanti, non si buttarono via come
Parri della Quercia.
—Saremo amici, io spero!—ripeteva sommesso il Chiacchiera, rifacendo il verso del nuovo venuto.—Vedete che degnazione! O che si crederebbe, per caso, d'essere il duca Namo di Baviera?
—O il Saladino;—soggiunse Lippo del Calzaiolo.
—Sarà poi Calandrino, e nulla più;—conchiuse Cristofano Granacci.
Tuccio di Credi non disse nulla; ma dentro di sè pensava:
—Amico tuo! Sei sciocco, affè mia, se lo speri!—
III.
Abbiano la mala pasqua i pessimisti, gli scettici, ed altri filosofi di tal fatta, i quali sostengono che l'uomo sia un animale invidioso per natura, e che le nostre buone qualità sieno solamente effetto di paziente educazione, come a dire di strofinamento e di verniciatura.
Grazie al cielo, e con licenza dei filosofi sullodatì, ci sono ancora delle anime intimamente buone, la cui virtù è frutto di generazione spontanea, non già conseguenza d'innesto sapiente, o d'arte giudiziosamente educatrice. E ci sono altresì degli uomini che non soffrono il male dell'invidia, neanche (e questo è meritorio da parte loro) quando vedono che Tizio o Caio ha ingegno o attitudine da superarli di gran lunga, in questa o in quella disciplina.
Vedete, ad esempio, il nostro bravo messer Jacopo di Casentino. Il vecchio scolaro di Taddeo Gaddi, il degno continuatore della tradizione di Giotto, indovinava facilmente che quel giovinottino da lui preso a bottega, quando avesse fatto un tantino di pratica nel maneggio dei pennelli, sarebbe diventato di schianto un artista insigne, un maestro, da lasciarsi addietro i migliori del suo tempo. E per lui, per quell'aquilotto che metteva appena i bordoni, mastro Jacopo aveva smosso il suo piglio burbero; per lui trovava le parole amorevoli, la placida assiduità degli insegnamenti, la ineffabile tenerezza dei conforti paterni.
Due sentimenti diversi lo persuadevano a ciò. Il primo era quello dell'ambizione. Esser maestro ad un discepolo che non aveva punto mestieri di rimproveri e così poco di incitamenti a far meglio, poter raccomandare il suo nome ad un nuovo argomento di gloria, eccovi l'ambizione di mastro Jacopo; ambizione legittima, e, quel che più monta, di effetto sicuro, si sarebbe detto un giorno: Spinello Spinelli, il famoso pittore d'Arezzo, era scolaro di Jacopo da Casentino. Degno del maestro il discepolo! E se pure si fosse dovuto dire: migliore del maestro la gran pezza, sarebbe stato poi un gran male? Avere indovinato un ingegno potente, averlo tratto dall'oscurità, avergli per così dire adattate le ali agli omeri, non è forse una gloria, un titolo di merito al cospetto dei posteri, specie quando un simil titolo si può metter di costa ad altri parecchi?
Ora, che mastro Jacopo di Casentino non s'ingannasse in questi suoi sogni ambiziosi, la storia dell'arte italiana lo ha dimostrato. La fama di Spinello Aretino ha confermata, se non per avventura accresciuta, la fama del suo vecchio maestro.
L'altro sentimento era d'indole affatto domestica. Gli dò mia figlia;—diceva tra sè mastro Jacopo.—Bello lui, come essa è bella: ha ingegno, salirà presto in eccellenza d'arte; avrò in lui un aiuto maraviglioso; prospererà la mia scuola; Arezzo contenderà la palma a Firenze….—
E qui mastro Spinello….Ma via, non precipitiamo nulla, raccontiamo le cose per filo e per segno, non mettiamo il carro avanti ai buoi.
Madonna Fiordalisa, ve l'ho già detto, si dimostrava umana col nuovo discepolo dì suo padre. Più volte nel corso della settimana, o con un pretesto o con l'altro, Spinello Spinelli era invitato a desinare dal maestro; onore che toccava di rado agli altri compagni suoi di bottega. Qualche volta anche lei discendeva al pian terreno; e certamente più spesso che non le accadesse da prima; ora per avvertire il babbo che si dava in tavola, ora per chiedergli il suo parere su questo o su quel particolare d'economia domestica, ed anche, perchè bisogna dir tutto, anche senza una ragione sufficiente per scendere. Ma già deve trovarla sempre, e per ogni cosa, la ragione sufficiente? I filosofi, che hanno voluto metterla come fondamento dei loro sistemi, si sono trovati anch'essi il più delle volte impacciati.
E Spinello ardeva; e l'interno ardore gli traluceva dagli occhi. Voi lo sapete, lettori, perchè di lì ci sarete passati un giorno anche voi; l'amore e la tosse si nascondono male. Anche madonna Fiordalisa nascondeva male il senso che faceva su lei l'amore di Spinello Spinelli; anzi, non lo nascondeva affatto. Perchè avrebbe dovuto nasconderlo? Non era nato, quell'affetto, e non cresceva forse liberamente sotto lo sguardo benevolo di suo padre? Era da principio un po' timida; poi, nel ravvisare la stato del proprio cuore, si era fatta contegnosa. Ma queste deboli difese, pari alle fortificazioni improvvisate lì per lì da un esercito in aperta campagna, durano appena quel tanto che basti ad una semplice ricognizione. E madonna Fiordalisa non aveva durato fatica a riconoscere che quel gentile e modesto innamorato non era altrimenti un ingannatore. Si sentì raffidata e gli diede senza contrasto il suo cuore. Dolce abbandono, che non è turbato da nessun sospetto, da nessuna paura!
Mentre faceva quei progressi nel cuore di lei, e forse per la stessa ragione che li faceva, il nostro Spinello avanzava rapidamente nella disciplina che aveva con tanto ardore abbracciata. Imparava facilmente quel che oggi si chiama il meccanismo dell'arte. Sapeva come si dovessero unire i colori, a fresco e a tempera, o come si avessero a dipingere le carni e i panni, per modo che ne venisse rilievo e forza alle figure, mostrando l'opera chiara ed aperta; conosceva quali colori si dovessero usare nel dipingere a fresco, cioè tutti di terra e non di miniere; con che risolutezza di mano si avesse a condurre il lavoro, prima che l'intonaco del muro potesse disseccarsi, e qual forza dovesse dare al colore, perchè le tinte, mentre che il muro è molle, mostrano una cosa in un modo, che poi, secco il muro, non è più quella di prima. Ed altre cose aveva prontamente imparate, con potenza di desiderio, anzichè per pratica; del dipingere a tempera, cioè col rosso dell'uovo e col latte del fico mescolati nei colori; del dipingere a chiaroscuro, contraffacendo le cose di bronzo: e finalmente del fare gli sgraffiti sulle mura, per modo che reggessero all'acqua piovana.
E tutto ciò senza rifarsi pure una volta ai principii. Tirato dalla sua inclinazione a schizzare dal vivo, od altrimenti dal naturale, Spinello Spinelli era già andato molto innanzi nel disegno, esprimendo col lapis rosso di Lamagna, o col nero di Francia, figure, atteggiamenti, partiti di pieghe, od altro che gli toccasse l'animo. Così lavorando, aveva acquistato una maravigliosa destrezza a fare con la penna i dintorni delle cose vedute, dando le velature e le ombre con una tinta dolce, che otteneva dall'inchiostro stemperato nell'acqua. E da ultimo, come abbiamo veduto dai disegni suoi, che erano andati sotto gli occhi di mastro Jacopo, faceva ogni cosa a tratti di penna, lasciando che i lumi delle figure fossero resi dal bianco della carta.
Del resto, in quei cominciamenti della pittura mancavano i grandi esemplari da proporre ai discepoli, e ognuno ritraeva dal vero, portando nell'opera quei medesimi difetti e qualità, che erano nell'occhio di ciascheduno, e nel suo modo particolare di veder la natura. Che se a voi, lettori discreti, paresse strano il caso di tanti