Storie da ridere.... e da piangere. Ercole Luigi Morselli

Storie da ridere.... e da piangere - Ercole Luigi Morselli


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volta, in quel lontano febbraio, l'Osteria degli Scampoli aveva sei mesi di vita ed era nel suo più bel rigoglio. Dalle otto della mattina alle due della notte la instancabile Bullet ruzzolava dentro e fuori, da una tavola all'altra, pronta a ogni chiamata, con gli occhi e il sorriso sempre [pg!7] dovunque, aiutata appena da un garzoncino di dieci anni, azzoppato, in verità, per il vizio che aveva di stuzzicare la coda dei cavalli del porto, ma reclutato con entusiasmo, come ultima pennellata al suo capolavoro, dal nostro Otello; il quale troneggiava seduto dietro il banco con la sua pipa in bocca per tutte le dieciotto ore che la sua osteria stava aperta. S'era sbiancato, ora, in faccia, e s'era ingrassato a vista d'occhio. Una volta che Bullet gli disse: — Eri più bello prima! — Otello rispose gravemente: — Ogni stato sociale ha la sua estetica, mia cara! Da calafato ero bello perchè somigliavo a un'ascia; ma il capitalista, per esser bello deve assomigliare a un salvadanaio.

      Non si muoveva mai dal suo banco, come ho detto, ma soltanto, ogni sabato, andava a depositare al «Banco Español del Rio de la Plata» gli introiti della settimana. Ci andava solo, perchè teneva straordinariamente a bastare a sè stesso in tutto ciò che era amministrazione della sua azienda. A tale scopo aveva imparato a conteggiare e a firmare tenendo la penna con la bocca. Bullet, alle undici precise di ogni sabato mattina gli spegneva la pipa, gli metteva il denaro contato nella tasca interna del panciotto, ben incartato in un pezzo di giornale, gli riabbottonava panciotto e giacca, ed egli [pg!8] usciva per fare sempre a piedi il lunghissimo tragitto che lo divideva dalla famosa esquina delle Banche. Un'ora di andata penosa e circospetta. Un'ora di ritorno tutta fischiettata e cantarellata.

      L'aveva sempre passata liscia: non gli era mai toccato nessun incontro; ma in ogni caso, da che aveva perduto le braccia, da buon filosofo che egli era, aveva riposto una fiducia illimitata nella potenza delle sue gambe, e soleva dire: — Io non ho paura: con un calcio ne stendo in terra quattro!

      Il sabato, dunque, dalle undici fin verso le due, Bullet rimaneva sola a reggere le sorti dell'azienda, come le diceva Otello prima di uscire agitando paternamente il moncherino. Secondo le prescrizioni, non avrebbe dovuto abbandonare, per nessuna ragione al mondo, il banco, lasciando sbrigare tutto il servizio dal ragazzino zoppo. Ma, aimè! la buona pallottola non comprendeva questi alti precetti: resisteva forse una mezzoretta rigirandosi sulla sedia maritale, come se ci avesse avuto sotto le spine, ma poi, agli insistenti richiami di quei suoi allegri avventori, ruzzolava giù dal suo trono e ricominciava a ballonzolare tra le tavole come al solito, fermandosi ora qua ora là, a chiacchierare e a ridere. Ruzzolava più presto [pg!9] se la chiamava Peppino, e le fermate che faceva alla tavola dov'era lui erano le più lunghe; ma questo non faceva meraviglia a nessuno, perchè Peppino era l'anima, il dio tutelare di quell'osteria.

      Arrivava la mattina verso le dieci sopra una comoda poltrona triciclo messa in moto dalle sue braccia, sempre ben vestito, benissimo pettinato, coi baffi irreprensibilmente arricciati e profumati alla violetta, la barba rasata sempre di fresco; dimostrava meno dei trent'anni che aveva, nonostante le proporzioni erculee del suo collo, del suo petto e dei suoi polsi.

      La tavola dove si metteva lui in cinque minuti si riempiva di gente. Ne raccontava di storie buffe! Era stato atleta in un circo equestre per dieci anni e aveva visto tanto mondo; e poi faceva certi giuochi di prestigio da rimanere a bocca aperta. Le gambe glie le avevano, niente di meno, mangiate i pesci cani. In mezzo all'Oceano si era gettato in mare dal piroscafo per salvare la figlia di un banchiere italiano che s'era voluta uccidere. Era riuscito miracolosamente a salvare la ragazza, ma lui era stato issato a bordo che pareva una botte sfondata da tanto sangue buttava. Il banchiere l'aveva assistito come un padre. Appena giunti a Buenos Aires gli aveva comprato quella magnifica [pg!10] poltrona triciclo e gli aveva assegnato un mensile vitalizio che gli permetteva di bere vino in bottiglie e giocare ogni sera delle vere sommette. Questo gioco della sera attirava ogni sorta di gente quattrinaia nell'osteria di Otello, e le bottiglie più vecchie si vuotavano a dozzine; e Otello, il cui fiuto finanziario non fallava, se gli avessero ridato le due braccia per portargli via Peppino, avrebbe risposto: No!

      Un sabato, dunque, verso il tocco, eravamo una diecina intorno a Peppino fuori dell'osteria; ci raccontava di quando in un cabaret di Parigi aveva vinto mille franchi di scommessa al re Leopoldo stendendosi in terra supino, a dorso nudo, e facendosi salire sul petto quattro ballerine: e v'assicuro che bisognava ridere per forza, a sentirla raccontare da lui. Bullet si doveva tenere addirittura la sua pancetta con le mani.

      Ma in mezzo alle risate amiche, si udì una voce secca secca dire: — No puede ser!

      Ci rivoltammo; l'interlocutore era sconosciuto a tutti: un basso spagnolo con un lungo soprabito giallo tutto sbrindellato, un largo cappello di paglia annerito dalle intemperie, i piedi calzati stranamente di rosa, piantati con gran fierezza dentro due scarpe di corda. Stava ritto dietro Peppino, con la sigaretta in bocca e le mani in tasca.

      [pg!11] — Non può essere! — ripetè col suo pretto accento madrileno — io sono dell'arte, sono atleta anch'io, atleta girovago perchè si sa pur troppo che nel mondo vale la fortuna e non il merito, ma sono uno dei più forti atleti che abbia oggi la Spagna e si sa che la Spagna è la patria dei più forti atleti del mondo. Ebbene, io posso garantire, che nè io nè nessun altro atleta spagnolo può fare un esperimento di questo genere!

      Peppino lo guardava più tranquillo di noi, senza ombra di risentimento. Quando ebbe finito, gli disse:

      — Qual è il peso più grosso che alzi?

      — Il mio peso da un quintale verificato e bollato in dodici concorsi, col quale ho guadagnato le dodici medaglie d'oro d'argento e di bronzo che loro possono ammirare sul mio petto!

      E così dicendo lo spagnolo si sbottonò con una sola stratta tutta la sua pelandrana e ci si mostrò in maglia rosa e brachette di raso viola, col petto trasformato in un vero medagliere.

      — E dove ce l'hai questo peso? — domandò Peppino.

      — Nella mia carrozza! — esclamò lo spagnolo presentandoci con un gesto solenne un [pg!12] orribile carretto a due ruote carico di ogni ben di Dio, cui era attaccato un cavalluccio tutto pelo e ossi.

      — Portalo qua.

      Lo spagnolo si levò la palandrana, estrasse dal carretto due enormi palle infilate ai capi d'una grossa sbarra di ferro, e venne tentennante ma sorridente a gettarle ai nostri piedi, facendoci balzare tutti sulle sedie per il contraccolpo.

      — Fammelo assaggiare, — disse Peppino; e chinandosi sul suo triciclo, e con la destra afferrato nel giusto mezzo il peso, lo tenne per un momento sollevato, con una facilità che preoccupò visibilmente lo spagnolo.

      — Se, così come son ridotto, senza gambe, t'alzassi questo peso e te seduto sopra, tutto di forza, senza spinta, perchè ho le spalle appoggiate, ci crederesti allora a quello che ho raccontato?

      — Allora sì! — rispose lo spagnolo sorridendo incredulo.

      Peppino si levò la giacchetta e la dette in custodia ad un ammiratore vicino, poi si levò anche la camicia e mise al nudo un torso candido e gigantesco come quello di Ercole.

      Bullet aveva smesso di ridere per guardare a bocca aperta. A un tratto strillò:

      — Che bellezza di bracci, per Diana!

      [pg!13] — È un pezzo che non vi sentite stringere la vita! — gridò Peppino, ridendo con tutti i denti. — Dite la verità che n'avete voglia d'una strettarella, eh birbacciona? — E aprendo le braccia: — Volete favorire? Io ci sto di core!

      — Se vi sentisse Otello! — si limitò a rispondere Bullet, rimanendo però lì come tenuta dall'incanto di quelle due braccia magnifiche.

      — Su! Su! la gran prova! — dicevano gli amici di Peppino.

      E Peppino allora mise in tensione tutti i suoi muscoli e tenendo le braccia piegate contro il petto disse: — Avanti! mettetemi il manubrio qua sulle mani.

      Glie lo alzammo in quattro e glie lo mettemmo come aveva detto. Le sue braccia non cedettero d'un centimetro, ma il triciclo ne parve sconfortatissimo.

      —


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