La vita operosa: Nuovi racconti d'avventure. Massimo Bontempelli
pervenuto alla eccellente condizione e sinecura di semidio. Ma non possiamo dire in coscienza a che cosa Ercole sarebbe pervenuto se avesse scelto la strada piacevole e facile. Forse sarebbe diventato semidio ugualmente, e senza le dodici fatiche; forse sarebbe arrivato anche più là, l'avrebbero fatto dio addirittura; e non soltanto in India e in Siria, dove dovette come dio cambiare nome e chiamarsi Rama e Baal, ma sarebbe successo apertamente a Zeus, invece di Cristo, in tutto il mondo occidentale: chi sa?
Tutte le favole, di tutte le epoche, sono altrettanto scarsamente probanti. Cappuccetto Rosso per aver preso la strada più lunga nel bosco finì divorata dal lupo. Verissimo. Ma se avesse preso la strada più corta, possiamo noi affermare che non le sarebbe accaduto anche di peggio? per esempio essere violata da un malandrino, e di lì finire nella vita disonesta, che, come ognuno sa, è peggiore della morte?
— Bisogna anche considerare che la storia degli uomini celebri per diventare esempio morale subisce spesso riadattamenti che ne modificano profondamente la portata. Così dovette avvenire appunto della vita di Ercole, ch'era l'uomo più celebre del suo tempo. Il fatto del Bivio ci è raccontato per la prima volta da Prodico sofista, che visse nel quinto secolo avanti Cristo, cioè circa milleduecento anni dopo Ercole. Ma su quel fatto c'è in un testo poco noto una versione anteriore a quella di Prodico, versione che fu poi dimenticata, sommersa dalla nuova, forse perchè la prima parve un po' cinica. La leggenda poco nota è questa: Ercole fin da ragazzo aveva sentito dire molte volte da Alcmena che la virtù è bellissima e il vizio orribile. Trovatosi al Bivio, vedendo una strada brutta e fetida si cacciò subito in quella, convinto di entrare nella strada del vizio. Quando s'accorse dell'errore non era più a tempo a tornare indietro; ciò che del resto è avvenuto e avviene in ogni tempo anche a uomini comuni, i quali, avendo, per contingenze o per naturale timidità, cominciata la carriera di persone per bene, per quanto poi se ne pentano si trovano siffattamente intricati nella vita onesta che non possono più liberarsene, e si rassegnano alla virtù per il rimanente dei loro giorni. —
Non occorre ch'io avverta che quest'ultima divagazione l'ha fatta il Dàimone, col quale ormai ho stabilito di romperla su tutti i punti. Io mi sono accontentato di stare per un momento a contemplare i massicci portoni che debbo attraversare per avventurarmi verso il centro vivo della città. Chi sa mai chi avrei incontrato, e quale corso avrebbero seguìto i miei fati, se fossi andato ai Giardini. Inoltrandomi per via Alessandro Manzoni incontro un tenente dei mitraglieri.
3. Improvvisazione.
L'ho conosciuto un anno fa, non so più dove, ma certo di là dal Brenta e di qua dal Piave. È ancora grigioverde, io no: tuttavia lui riconosce me e non io lui, sulle prime. Ma non me ne faccio accorgere e rispondo con entusiasmo al suo entusiastico abbraccio.
— Non sono ancora smobilitato — mi assicura — ma sono libero, e mi son messo a lavorare.
Intanto mi risovvengo, non del suo nome, ma di lui, e ne fo sfoggio.
— Se non ricordo male, eri ingegnere, appena laureato....
— Appunto.
— E avevi intenzione di entrare nelle Ferrovie.
— Hai buona memoria. Ma niente Ferrovie. Ti paion tempi questi? Faccio della pubblicità.
Da quando sono tornato ho già incontrato non meno di dieci persone, di classi studi e professioni diversissime, che mi hanno detto: — Faccio della pubblicità. — Non ho un'idea chiarissima di quello che fanno, e non mi sono mai permesso di chiedere spiegazioni precise.
— E tu — dice l'amico — che fai? Scrivi sempre?
— Io?... Non so ancora bene.... forse mi metterò anch'io a fare della pubblicità.
Questa risposta non sorprende lui: invece sorprende me, che non la aspettavo affatto. Il tenente — non m'è ancora venuto a galla il nome, aspetto qualche occasione per farglielo dire senza parere — il tenente approva:
— Bravo! perchè non provi a venire con noi?
— Dove?
— Alla B. A. I. A.!
4. Dal signor A. al signor Z.
Ci fu un tempo che frequentavo dei letterati. Qualche volta m'era avvenuto che taluno di essi nel corso della conversazione uscisse in frasi del seguente tenore:
— È qualche cosa, sai, come l'episodio di Aladina nella mia Suprema Salvezza.
Oppure:
— Non hai che pensare al mio finale del secondo atto di Libagioni.
Io frequentavo quei letterati, ma non avevo letto La suprema salvezza, non avevo sentito Libagioni. Senonchè gli autori li citavano con una così candida e poderosa convinzione, che non osavo chiedere maggiori lumi in proposito.
Ciò avveniva prima della guerra. Il simile avvenne quando, dopo la guerra, in un giorno di gennaio del 1919, un tenente mitragliere mi nominò senz'altro la B. A. I. A., nome nuovo alla mia mente.
Perciò dissi soltanto: — Ah —, ed egli continuò soddisfatto:
— Forse non sapevi che la dirige mio fratello.
— Non ne ero certo.
— Sì, sì. Ci faremo dare un appuntamento. Del resto mio fratello lo conosci.
— Non mi pare.
— Come? Mi ha detto che vi siete conosciuti, non so bene, in una città dell'Italia Centrale.... molti anni fa....
— Può darsi.... Si chiama?
— Luigi.
— Voglio dire, il cognome.
— Come ha da chiamarsi? Come me, Gattoni.
— Naturalmente.... Sì! ora ricordo. L'avvocato Gattoni.
— È lui. Stai a sentire: aspettami là in Galleria. Io arrivo qui allo studio a informarmi quando può riceverti, e torno a dirtelo. Se potesse sùbito, tanto meglio.
Poichè era lunedì gridavano dappertutto La Gazzetta dello Sport, al quale richiamo la nuova gioventù correva in folla.
L'aspettazione in Galleria la occupai leggendo con cura i titoli dei libri nelle vetrine di Treves e di Baldini e Castoldi (con la quale esplorazione mi misi in breve e compiutamente a giorno degli spiriti e delle forme della nostra letteratura contemporanea) e riandando col pensiero al tempo in cui, sei o sette anni prima, avevo conosciuto l'avvocato Luigi Gattoni, giudice di tribunale in una città di provincia. Lo ricordavo perfettamente come un uomo placido: duplice barba grigia alla Palmerston da cui emergeva raso il mento: appassionato giocatore di scopone: un giudice per bene: una persona qualunque: Gattoni. Non avevo ancora capito nulla dell'avventura improvvisa che ora legava quel giudice qualunque, dimenticato da tanti anni, con la mia persona, attraverso le premure d'un mitragliere conosciuto tra Piave e Brenta, sullo sfondo misterioso d'una B. A. I. A.
Queste quattro lettere m'apparvero poco di poi, sempre più misteriose, nere su un cartello bianco smaltato, sopra la porta d'un ammezzato oscuro in una via operosa e brulicante. Il mitragliere mi precedè in un'anticamera buia e mi disse:
— Aspetta qui.
Mentre aspettavo, il Dàimone mi ammonì:
— Stai attento a non comprometterti.
— Non seccarmi — gli risposi.
Dopo una mezz'ora il tenente ricomparve:
— Vieni.
Sorrideva con gli occhi e coi denti: