La vita operosa: Nuovi racconti d'avventure. Massimo Bontempelli

La vita operosa: Nuovi racconti d'avventure - Massimo Bontempelli


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dolci orientali; e poi due o tre stanzine riservate per gli habitués sicuri, e là si danno le specialità più intime del vero oriente. La Lina, che è una bella figliola, vestita giusto mezzo all'orientale, un po' di qua un po' di là, a dirigere e tenere i conti. È semplicissimo.

      — È geniale.

      — Ecco, geniale, è come ha detto il signor Gianni. E mi ha anche detto: — ci vuole il lancio, la réclame; una réclame diffusa ma discreta: chè le cose più importanti non bisogna dirle. Lei — dice — vada alla B. A. I. A., e si faccia dare delle idee per la réclame. Il resto verrà da sè. Guardi signore, qui ci ho la lista di qualche specialità del vero Oriente, che non riuscivo a ricordarmi i nomi. Lei già le conoscerà bene queste cose, per il suo mestiere.

      Mi porse un foglietto, su cui lessi:

      «Haschisch» — «dawamesk» — «oppio» — «etere» — «cocaina» — e altri nomi meno noti.

      (— Non ci manca — disse il Dàimone — che un po' di coprofagia).

      Io più seriamente risposi:

      — Ho inteso, signora. Poichè la cosa è molto speciale, bisogna che lei mi lasci qualche giorno. Passi tra una settimana giusta, a quest'ora.

      La salutai. La bella Lina fece un inchino di scuola, e finalmente disfece quel sorriso; parve come uno che si levi la dentiera e se la metta in tasca. Scomparvero.

      Io mi misi d'impegno a studiare il piano per il lancio delle «Specialità del vero Oriente». Volli prima familiarizzarmi un poco con la materia, e studiai sui testi il modo di trarre dalla canape indiana l'haschisch, m'informai degli ingredienti che variano il verde haschisch nel più pallido dawamesk, non trascurai di consultare i riflessi classici e letterari di questa materia da Erodoto e Plinio a Baudelaire; feci una corsa, dietro la scorta dei viaggi di Marco Polo, nella leggenda del Vecchio della Montagna e dei suoi Haschischins o Assassini, m'interessai delle tre grandi fasi dell'ebbrezza e delle loro possibili varietà. Altrettanto minutamente m'occupai dell'oppio, sia per l'aspetto poetico leggendomi la Confessioni del De Quincey, sia per quello scientifico ricercando in una farmacopea le differenze tra l'oppio giapponese più aromatico e l'europeo più potente, attraverso l'oppio indiano che si avvolge in stagnole sotto forma di piccoli semi di color perso. Credetti per un momento di avere intravisto il motivo della mia réclame nella fantasiosa notizia che i Giapponesi fanno la raccolta dell'oppio la seconda sera dopo il plenilunio di giugno, avendovi praticato ventiquattro ore innanzi l'incisione, al punto dell'imbrunire. Ma ricordai a tempo che il lancio doveva essere prudente e discreto. Allora risalii a Omero; pensai al nepente che Elena aveva avuto in dono da un'egiziana, e al loto che ai compagni d'Ulisse faceva dimenticare la patria e il ritorno. Anzi, il bar di Lina doveva chiamarsi omericamente «Lotòs». Ci voleva una pubblicità indiretta e suggestiva, che preparasse l'animo del pubblico a cercare il «Lotòs», senza ricorrere alla solita volgarità dei cartelloni o dei quotidiani, anzi senza nominarlo neppure. Mi fiorirono idee semplici ed efficaci. Così che la mattina del settimo giorno mi presentai nello studio grande al commendatore avvocato Gattoni, mio principale: gli esposi in succinto le parole della vecchia — ed egli mi accompagnava con uno strano brontolìo basso —, poi senz'altro gli porsi il foglio su cui avevo segnato i risultati delle mie trovate.

      Il commendatore prese con qualche diffidenza quel documento, che era così concepito:

       Progetto per il lancio (diffuso ma discreto) del bar «Lotòs»

      1) Far tenere alla locale Università Popolare, da qualche dotto ellenista, una lettura e commento del libro IX dell'Odissea, dove si parla del loto.

      2) Incaricare un commediografo alla romana di scrivere una commedia in cui il brillante sia un appassionato di haschisch.

      3) Commettere a un prosatore alla milanese un romanzo in cui sia descritta la vita di un bar del tipo che vogliamo lanciare.

      Nota. — Queste tre manifestazioni debbono essere tra loro contemporanee, e precedere di poco l'apertura del bar «Lotòs».

      Il commendatore Gattoni lesse, con un mormorìo agitato, il mio progetto; poi lo gettò sul tavolino dicendomi:

      — Lei è matto.

       Indice

      — Lei è matto — ripetè — e glie lo spiego. Prima di tutto quando viene gente di quel genere la si manda via.... o almeno.... almeno.... Insomma, bisogna saper bene se si ha a fare con persone serie, prima di compromettersi.

      (— Te lo dico sempre io! — brontolò il Dàimone).

      — In secondo luogo, a parte l'opportunità, questo suo piano è assurdo; mi fa vedere che lei non è entrato nello spirito della B. A. I. A., nello spirito dei tempi, nello spirito della rinata Italia. Oltre la irrealizzabilità, e il tempo che richiederebbe, non sente come tutto questo puzza di letteratura? Di scuola e di letteratura: professorume e scrivaneria. Non ci voleva che un ex-professore per andare a pensare a Omero, al Lotòs, e alla Università, sia pure popolare. Non ci voleva che uno scrittore per andare a pensare a commedie e romanzi. Niente niente. Quando tornerà quella signora lei la mandi a spasso con una scusa qualunque. E facciamo un altro tentativo. Guardi: c'è uno, una persona seria, badi, un ex-colonnello dell'esercito, che è stato silurato fin dalle nostre prime azioni dell'Isonzo, il quale ha inventato una tappezzeria luminosa da mettere negli appartamenti invece della solita carta da parati. Questa tappezzeria, dice, è impregnata d'una sostanza chimica fosforescente, che di giorno non si vede; ma è composta in modo che verso sera, di mano in mano che la luce del giorno vien meno, si sprigiona gradatamente la luce dalla carta stessa. Così la stanza continua a essere illuminata, con eguale intensità. Abolizione d'ogni illuminazione. Sarà vero? non sarà vero? Questo non c'interessa. Lei trovi un'idea per rivelare al pubblico l'invenzione. Ma un'idea che si attui presto, semplice, rapida, penetrativa, e per carità, senza romanzi e senza università. Ha capito?

      — Perfettamente.

      Me n'andai nello studiolo piccolo, per pensare alla tappezzeria luminosa e aspettare l'arrivo della vecchia e della giovane. Ma trovai un biglietto della vecchia, che si scusava di non poter venire: «Per quanto disgraziati — scriveva — siamo gente beneducata, e avendo l'appuntamento bisogna che l'avverta che non posso venire causa forza maggiore, trovandomi ora improvvisamente in prigione, come pure il signor Gianni e la Lina, in seguito a un incidente. A rivederla». Non sapevo che diavolo avrei immaginato per le tappezzerie autofotogene dell'ex-colonnello. Il mio minuscolo tavolino era incastrato nel vano d'una finestra: di là dai vetri la strada distraeva ed eccitava insieme il mio cervello. Ora tra i carretti, che urlavano, dei merciai ambulanti sul crocicchio, scorsi a un tratto il cesto, pieno di garofani pallidi e di mimose, d'una venditrice di fiori; e da quei fiori saliva sino a me, traverso i vetri e la bruma, un'onda d'incomprensibile malinconia. Ma la malinconia non entra nello spirito dei tempi nuovi. Negli ammezzati della casa di faccia vedevo le teste di due dattilografe chine verso le tastiere. Pensai a Lina, che era in prigione. Desiderai d'essere in prigione anch'io per non dover pensare alle tappezzerie luminose del colonnello silurato. In prigione con Lina: Lina, col suo sorriso smontabile e il difetto dell'esse e dell'erre fin da bambina e la repugnanza per gli uomini. Anch'io ho alcuni difetti fin dall'infanzia irrimediabili, e alcune invincibili repugnanze. Che diavolo inventare per l'invenzione del colonnello? Gli inebriati dell'oppio e del nepente del bar di Lina avrebbero viste luminose anche le prigioni più oscure, senza bisogno di pareti fosforee. Perchè diavolo il colonnello s'è messo a fare delle invenzioni? Se non lo siluravano, a quest'ora sarebbe morto, sarebbe generale, chi sa? Come Ercole se prendeva il cammino piacevole. Come me se quel giorno andavo ai Giardini.

      — Sei ancora a tempo a provarci — disse il Dàimone.

      — Tu sai che oggi è già tutt'altra cosa da allora, da ieri, da un'ora fa — gli obiettai.

      — Ma nessuno t'impedisce di provare, anche


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